lunedì, settembre 12, 2011

Las Malas Intenciones | Festival report

Si è parlato più volte in questo blog di memoria, così come si è accennato al tremendo fardello in termini di storia del Sudamerica. La generazione di moderni cineasti, siano essi cileni come Pablo Larraín, peruviani come Claudia Llosa1 o argentini come Paula Markovitch2, si trova suo malgrado a dover fare pace con quanto accaduto e con le cicatrici della loro sanguinaria storia. Las Malas Intenciones della peruviana Rosario García-Montero non fa certamente eccezione.

La prima cosa su cui viene da riflettere è la nostra rimozione dell'orrore dalla storia. Qualcosa di simile a quanto descritto da Foucault nel suo saggio sulla punizione Sorvegliare e Punire: quella strenua esigenza della società civile, o presunta tale, di lavarsi le mani dal crimine. Se la punizione, per essere accettata è mutata negli anni verso una forma sempre più incorporea passando dalla pena di morte alla tortura, fino alla detenzione infinita o temporanea in una sorta di pudore nel punire l'orrore con altro orrore e nel negare all'individuo la responsabilità  del giudizio, allora la storia del nostro continente è stata epurata del sangue e dello strazio fisico. La storia sudamericana, al contrario, ha spesso un dettaglio orrido,  teatrale e crudele, degno di un Antonin Artaud. Da questo punto di vista è notevole il lavoro fatto dalla García-Montero sulla percezione che una bambina ha della storia e degli eventi di quel 1982 peruviano.  La bimba sfoglia i libri dove trova Tupac Amaru, José Olaya, Simón Bolívar, e vive la sua realtà parallela fatta di allucinazioni e battaglie, convinta che il suo nome, Cayetana de Los Heros, le riservi un destino eroico, mentre attorno si cerca di fare la rivoluzione comunista contro il governo. La confezione scelta dalla regista è ottima: suggella tutto con molto stile e non lesina nemmeno sulla tecnica con un bellissimo piano sequenza tra le nebbie3 eterne che sembrano avvolgere i sogni della protagonista.

L'inadeguatezza degli uomini di fronte all'eroismo è tutto nella sua piccola figura, che si chiede perché si festeggino le sconfitte nel suo paese, e che risponde con incredibile cattiveria a ciò che non accetta come la nascita del fratellino, il divorzio della madre e la malattia della migliore amica. Una cattiveria comica che si risolve in mille commenti pungenti e travolge la sua nazione sconfitta dalla storia. Si ride tantissimo con le riflessioni della piccola Cayetana, interpretata da una meravigliosa bambina che risponde al nome di Fatima Buntinx. Si ride tanto nel riconoscersi nel suo cinismo dettato dall'innocenza e dalla difficile percezione dei troppi eventi che sono in moto nella sua vita, resa ancor più difficile dalla privilegiata posizione di bimba medio-borghese. Si ride tanto e amaramente, forse consci che una rivoluzione non saremo noi a farla di persona, che siamo nella stessa posizione privilegiata e borghese di Cayetana, abbiamo perso la sua innocenza e l'abbiamo sostituita crescendo col senso di colpa dell'essere inermi protagonisti della realtà.


1. Prima o poi si parlerà in questa sede del cinema della conterranea Llosa tipicamente bistrattato dal critico europeo per eccesso di lirismo e senza tener conto di ritmi e linguaggio del cinema sudamericano.
2. El premio della Markovitch condivide con Las Malas Intenciones,  non solo le presenze al Milano Film Festival e al Berlin International Film Festival, ma anche l'avere come protagonista principale una bimba.
3. Ad un certo punto si parla molto efficacemente di un velo che sembra sempre avvolgere il cielo di Lima come a voler puntualizzare questa scelta autoriale ed oserei dire lirica.

Wasted Youth | Festival report

Povera Grecia. A quanto pare la crisi economica che la investe dovrebbe in qualche modo aver infettato il sistema in maniera irreparabile. Non c'è via di scampo e  il cinema che tra le arti figurative è quella che si presta di più alla rappresentazione dei momenti di difficoltà di una nazione non può  che esserne ammalato, incancrenito, finanche morente. D'altra parte da un paese che vanta i natali di Costa-Gavras ci si deve aspettare un nuovo tassello di gran cinema politico. Questo almeno è quel che hanno in testa gran parte dei critici cinematografici. Purtroppo per loro il nervosismo che corre nelle strade non può facilmente imprimersi sulle pellicole che vengono da quelle terre. Il voyeurismo su certi temi è finanche troppo alimentato da altri tipi di lente come la televisione con il  suo brutale tocco documentaristico. Per questo la cosa che suscita più  perplessità  di questo Wasted Youth è proprio il voler soffiare sul fuoco di queste paranoie critiche. Mentre gli altri più celebrati registi di questa non-wave si affrettano a smentire appena possibile qualsiasi influenza della situazione, se non citando en passant la cronica assenza di denari per le produzioni, il duo di registi (Argyris Papadimitropoulos e Jan Vogel) si getta a braccia aperte nel gorgo critico. Così capita che Wasted Youth sia addirittura in apertura all'International Film Festival di Rotterdam, così come venga facilmente messo in programma al Milano Film Festival dove le pellicole a sfondo sociale sono sempre state presenza (fortunatamente) gradita. Quel che manca però è l'ampio respiro che un'opera su tali argomenti dovrebbe avere. Viene il dubbio che la vicenda della crisi economica greca vada prima somatizzata prima di potervi imbastire sopra una storia e il tutto sembra troppo affrettato per quanto buone possano esser le intenzioni degli autori.

Come aveva ampiamente dimostrato Kynodontas del conterraneo Yorgos Lanthimos quella gran fetta di cinema prodotta dal maestro austriaco Haneke non  è passata invano da quelle parti. Purtroppo 71 Fragments of a Chronology of Chance è ancora oggi irripetibile. Forse non lo sarà mai più. La mera ripetizione di meccanismi rappresentativi del maestro è talmente stantia e noiosa nel cinema d'autore moderno che all'ennesima ripetizione del cliché della scena di sesso anti-erotismo, brutta e spregevole anche lo spettatore casuale incomincerà ad inarcare il sopracciglio prima o poi. Oltre tutto anche Wasted Youth lavora su più piani narrativi destinati ad incrociarsi mescolando la storia di un poliziotto in crisi di identità e difficoltà economiche per la sopracitata crisi ellenica con quella di un giovane skater sbandato. Storie ovviamente destinate ad incrociarsi1. Suppongo non ci sia bisogno di raccontarvi il finale. Vero?


1. La vicenda è vagamente ispirata ad un fatto di cronaca dei tumulti in Grecia. Lo cito per dovere visto che tecnicamente dovrebbe essere un valore aggiunto. Purtroppo non sortisce alcun effetto la cosa. Neanche a livello emotivo.

martedì, agosto 02, 2011

Mal día para pescar | Un sogno grande un continente

Ritengo che vi sia una certa e distinguibile matrice psicologica nella scelta dei libri da leggere, della musica da ascoltare e dei film da vedere. Come ci si muovesse su diversi percorsi, ma si continuasse comunque ad andare nella stessa direzione. E' facile per me ritrovare in Mala día para pescar frammenti di altro, soprattutto se vado a spulciare nell'archivio mnemonico delle mie letture.

Le impressioni sono le stesse che si trovano nei libri del realismo magico sudamericano, quindi Borges, Cortázar, Márquez e perché no il buon Soriano che amavano presentare eventi magici o altamente improbabili come realtà normalissime. In fondo è proprio questo il motivo per cui amo il Sudamerica: perché lo guardo con quegli occhi. Suppongo però a giudicare dal film in questione, così come da molte altre pellicole, che non sia solo su questa terra e vedere impresse su pellicola certe immagini e situazioni solamente immaginate mi fa venir voglia di ringraziare caldamente ed affettuosamente il regista (Alvaro Brechner) per avermi fatto questo regalo.

La mia beata ignoranza fa sì che pur avendo rilevato tutte queste cose nel film di Brechner non sapessi che fosse ricavato da un romanzo del più famoso scrittore uruguagio: Juan Carlos Onetti. Il titolo del racconto è Jacob y el otro, a quanto pare tradotto e pubblicato anche in italia nella raccolta Triste come lei, e fa parte del ciclo di finzione ambientata nel paesino immaginario di Santa Maria, vero e proprio cronotopo letterario1, parallelo all'altrettanto celebre contea immaginaria di Yoknapatawpha in cui William Faulkner2 ambientò buona parte dei suoi racconti. Al proposito mi riservo di recuperare un po' di materiale di entrambi e magari tornarci su quando sarò vecchio, esperto, riposato e abbastanza paziente da dedicare centinaia di battute all'argomento.



Quello che però mi assilla, e forse sono in errore in questo, è che il Sud America in sé rappresenta un cronotopo. Un intreccio totale di spazio e tempo e personaggi racchiusi in una sorta di uovo primordiale. Un intero cosmo ordinato con proprie orbite da rispettare dove esistenze abbandonate a sé stesse vagano nei deserti dell'anima prima ancora che in quelli reali. La pampa, come la cordigliera delle Ande, il Mato Grosso, la Zona Austral e la Patagonia, gli altipiani della Bolivia son tutti paesaggi troppo grandi per un singolo uomo, per una singola anima. Si sostanziano come opposto speculare dell'altro estremo delle Americhe, quello industrializzato e potente, quello settentrionale, dove il detto recita the sky's the limit e vuol significare l'assenza di limiti e la volontà di elevarsi oltre quello che già si ha. Invece il cielo incombe sulle persone che si muovono nel sud depredato e impauperito dalla storia. Gli spazi immensi non sono là ad attendere che gli uomini li colmino, ma sono lì a separarli e lasciarli perennemente soli. Triste forse, ma anche fortemente poetico.


Le anime del film fanno parte di questo affresco sudamericano. Se c'è una cosa della quale essere abbastanza sicuri, pur non avendo avuto modo di accostare l'opera di Onetti a quella di Faulkner, è la distanza caratteriale tra i loro personaggi. Al riguardo si trovano molte speculazioni in rete sul rapporto tra i due misteriosi protagonisti, un presunto nobile (Gary Piquer) e un ex campione di culturismo dalla Germania (Jouko Ahola), dall'essere ex criminali nazisti in fuga fino all'essere una coppia omosessuale o entrambe le cose mescolate assieme tanto per essere originali. Onestamente risulta difficile credere che uno scrittore che non chiarisca questi dettagli li avesse ben presenti in mente e il film di Brechner ovviamente non dà analogamente alcun riferimento. Non sappiamo perché Jacob piange in chiesa o perché abbia crisi epilettiche o con chi parli il principe all'altro capo del telefono per organizzargli degli incontri di lotta libera e restituirgli la gloria perduta. L'unica cosa certa è che sono due anime perse che finiranno incidentalmente per incontrarne altre quando l'improvvisato nobile manager cercherà di organizzare un incontro truffa al suo malconcio campione per poter raggranellare un po' di denaro.


Se una costante c'è in queste storie del nuovo cinema sudamericano è la tesa disperazione dettata dalla povertà. Un'altra anima persa è infatti la protagonista femminile interpretata dall'imbronciata, ma egualmente affascinante, Antonella Costa, che disperata e pratica è alla ricerca di denaro per poter avere la minima speranza di crearsela un'esistenza. Tra l'altro la brava attrice è nata Italiana, ma per sua fortuna lavora prevalentemente in Argentina, quindi non in un paese dove il cinema è morto come il nostro. Che si sappia  quindi, perché merita tutta la nostra stima e affetto visto che continua ad alitare un po' di speranza nella nostra moribonda carcassa. Da citare almeno è il suo ruolo in Garage Olimpo, mentre preferirei non ricordare quell'immane sciocchezza de I diari della motocicletta.


Nel finale Brechner si lancia addirittura in una citazione, riedizione che dir si voglia, del gioco di sguardi del triello orchestrato da Sergio Leone ne Il buono, il brutto e il cattivo. Mi sento da aggiungere ben poco sul suo stile asciutto e delizioso e del grande senso dell'inquadratura che incornicia perfettamente la bella fotografia del film. Già nella sequenza iniziale che contestualizza la magia dell'ambientazione è tutto chiaro. Insomma questa coproduzione tra Uruguay e Spagna merita l'attenzione che gli è stata giustamente tributata all'edizione di Cannes in cui è stata programmata. Su questa immagine della Spagna che restituisce in soldi di produzione un po' del bottino coloniale chiuderei lo sproloquio lasciando da parte un discorso sul ruolo della lucha libre nella cultura popolare sudamericana che avrò certamente modo di riprendere per altri film. Sono certo che un giorno riuscirò a trovare un filo logico che unisce le nazioni in cui si è sviluppata (Usa, Giappone e Centroamerica) come spettacolo per le masse assumendo diverse forme di rappresentazioni, ma mantenendo lo stesso schema strutturale.

Scheda tecnica
Mal día para pescar
AKA: Bad day to go fishing
Anno : 2009
Regia : Alvaro Brechner
Soggetto : Juan Carlos Onetti
Sceneggiatura: Alvaro Brechner, Gary Piquer
Cast :
Gary Piquer - Orsini
Jouko Ahola - Jacob van Oppen
Antonella Costa - Adriana
César Troncoso - Heber
Bruno Aldecosea - Grey
Alfonso Tort - Ronco
Jorge Temponi - Jorge
Jenny Goldstein - Jessica
Ignacio Cawen - Fernandez
Luis Lage - Rius
Enrique Vidal - Locutor
Lucía Fernandez - Boletera

1. Il cronotopo letterario è una categorizzazione del romanzo fatta dal teorico della letteratura Michail Bachtin che mutuò il termine dalla teoria della relatività di Einstein. Senza stare a menarla troppo, similmente all'illustre fisico, suggerisce l'inscindibilità di spazio e tempo nell'opera letteraria. Praticamente ogni evento assume un senso solo se inserito in un contesto (spazio + tempo) che è per l'appunto il nostro cronotopo. Dare coerenza e senso ad un'opera letteraria vuol dire quindi isolare il suo cronotopo, poiché la letteratura si appropria del reale e lo canalizza nei differenti generi letterari. Mi fermerei qua. E se le vostre idee fossero confuse, allora sappiate che non siete soli.
2. Incredibile, ma vero. Esiste un saggio italiano dedicato ai due scrittori che evidenzia la passione per Faulkner di Onetti e cerca di analizzare il parallelo e la genesi di Santa Maria da Yoknapatawpha. L'introduzione del saggio orribilmente formattata è disponibile qui. Spero abbiamo venduto bazillioni di copie, ma non nutro molta fiducia nel genere umano come ben sapete.

lunedì, maggio 02, 2011

Abuela Grillo | L'ovvio è quel mostro all'ultimo livello

Mi sento di dover fare un post al riguardo perché inquietato dall'animoso spirito mostrato dai miei connazionali nel reagire alla privatizzazione1 dell'acqua. Evidentemente un concetto così semplice come dover pagare per un bicchiere d'acqua è riuscito a penetrare la spessa coltre di fascinazione del progresso mista a culto dell'imprenditoria selvaggia che attanaglia questo paese. Quindi se fino ad oggi sono riusciti a far privatizzare praticamente tutto delegando sempre di più i poteri del popolo ai privati oggi si dedicano alla rivoluzione tanto cara ai nostri media: quella digitale. Quindi a suon di click, di condivisione selvaggia su Facebook e cinguettii su Twitter stanno facendo ferro e fuoco. Quello che sfugge all'imberbe massa è che un semplice wipe di memorie fisiche potrebbe persino cancellare ogni traccia della loro rivoluzione. Se non è modernità questa.

Ad ogni modo mentre osserviamo gli sciacalli finir di spolpare le carni della carcassa putrescente delle nostre democrazie2, volevo provare una disperata opera di salvataggio dall'isteria puntando l'attenzione su un oggetto bello. Si tratta di un corto prodotto dal governo danese, che fa parte dell'Europa proprio come il nostro paese fino a prova contraria, e parla di Bolivia e di diritto all'acqua pubblica. Non c'è bisogno di sottotitoli, perché non vi sono parole, così come è apprezzabile l'ottimo tratto e stile grafico appropriatamente scelto per la narrazione di questo adattamento di un antico mito Ayoreo (popolo indigeno del Chaco Boreal). E la storia è talmente semplice che non ci vuole chissà quale interpretazione per individuare i capitalisti cattivi negli omoni in giacca. Non sto ad elencare nemmeno tutti quelli che han collaborato alla realizzazione3, lasciando ai poteri di Google e alla spiegazione che trovate all'account vimeo del regista francese il grosso del lavoro. Questo perché non è che mi interessi molto comunicare informazioni ovvie, ma piuttosto far passare il concetto che principi basilari come il dover esser contro la privatizzazione delle risorse e del bene comune siano ben chiari ad un Boliviano qualsiasi, mentre da queste parti sembra quasi che bisogni fare una missione porta per porta. Come il testimone di Geova che ha bussato alla mia porta ieri che voleva spiegarmi qualcosa dell'Apocalisse, vedo lo sciame di poveri derelitti affannarsi per sproloquiare su ciò che non si dovrebbe spiegare. Il difetto non è in trasmissione, ma in ricezione. Bisognerebbe crescere prima individualmente in questi tempi duri e avvelenati. E magari imparare un po' di umiltà da un Boliviano qualsiasi prima di diventare un venditore porta a porta dell'ovvio.



1. So poco della questione e forse il termine è improprio. Mi si perdoni se non ho voglia né tempo di andare a documentarmi, ma sono tipicamente contro qualsiasi corsa allo smembramento degli enti pubblici e quindi andrò a votare nel prossimo referendum abrogativo. Purtroppo, allo stesso tempo, mi annoiano talmente tanto i cantori della rivoluzione e dell'ovvio che il disamore per la politica è la scelta migliore in questi tempi moderni.
2. Non ho inventato io questa fine metafora, ma non ricordo dove l'ho letta.
3. Obbligo di citazione però per Luzmila Carpio ambasciatrice onoraria della Bolivia in Francia e famosissima cantante Quechua, che al contrario del credere comune è una lingua nativa del Sudamerica e non una tenda da campeggio, che dà la voce alla nonna grillo.

lunedì, aprile 25, 2011

L'Angelo della Vendetta | Immondizia dell'anima

"I simply wrote the truth, 
and relished the penetrating sharpness, 
the harsh beauty of reality." 1
Zoë Tamerlis Lund

Nel mio singolare caso di vecchio decrepito trentenne l'adolescenza si è compiuta negli anni '90 e ricordo in maniera definita come Abel Ferrara fosse già un regista feticcio per me. Difficile anche descrivere quanto mi piacquero film come Occhi di Serpente ed anche il vilipeso Blackout per non dovere andare a citare l'ovvio e scontato (cattivo) Tenente interpretato da Harvey Keitel. Film sporchi, reali, crudi dove la violenza entrava in ogni luogo: nei vicoli, nei salotti buoni, nei set cinematografici, finanche nei luoghi sacri. Violenza che andava di pari passo con la droga e con il degrado umano. Film che piacevano persino a quegli amici che nei film cercavano spesso solo l'estremo delle strade e di vite sregolate, capaci di oscillare per l'appunto da una visione pop e luccicante del disagio giovanile del britannico Trainspotting fino alle lerce rappresentazioni fatte con martello e scalpello dell'italico Ragazzi Fuori senza alcuna capacità di discriminazione. A parte il singolare minestrone giovanile che fondamentalmente avviliva anche me è singolare notare come tutto ciò sia sparito dai film americani degli ultimi decenni; per intravedere un cartone rotto in un vicolo bisogna aguzzare la vista e le puntate più glamour di Miami Vice sembrano di un lerciume unico al confronto del moderno Urban Movie nordamericano.



Tutto questo per dire che anche vedere un film certamente minore come L'angelo della vendetta (più noto internazionalmente come Ms. 45) della filmografia di Ferrara mi riconcilia col cinema statunitense che in quei tempi era ancora capace di assestare i suoi colpi. Ad ogni modo la pellicola con tutti i suoi difetti e le sue ingenuità di un regista ancora acerbo è particolarmente significativa. Col tempo maturando avrei anche imparato che non è tutto oro quel che luccica e che molto del merito dei suoi film vanno ai suoi collaboratori classici, anche perché solo i meno svegli si sono lasciati sfuggire il grado di compenetrazione del regista con le sue storie. Insomma non è certo la prima volta che un regista trasmette alle sue storie la sua esperienza personale e riesce per questo a passare l'agognato sotto-testo \ meta-messaggio e fondamentalmente mi interessa poco, però mi avvicina significativamente a quello di cui voglio parlare. E quello di cui voglio invece parlare è l'attrice protagonista Zoë Tamerlis. Qualcosa di più di un semplice corpo attoriale, che già preso separatamente era notevole e riempiva la scena con le sue caratteristiche somatiche accentuate. Labbra, occhi e ossa bene in vista, come se la vita volesse far di tutto per mostrare quanto e come incidesse quel corpo. Così è un esercizio sin troppo facile per Ferrara, quello di puntare la camera su Zoë e farle bucare lo schermo.


In questa maniera il film è qualcosa che vive in sola funzione del mezzo scelto per canalizzarlo ovvero l'attrice. Lo script di Nicholas St. John, collaboratore abituale di Ferrara, non brilla certo per originalità e per scrittura come ammesso dalla stessa interprete ed è forse grazie a questo che fu capace di impossessarsi mirabilmente del personaggio. Zoë non è una diciottenne modella capitata lì per caso per interpretare una donna stuprata che decide di diventare una killer di uomini, ma è già una donna intera con tutte le sue sfaccettature. Una donna più che una sceneggiatrice, che sarebbe tornata anni dopo sull'argomento per scrivere uno dei capolavori di Abel Ferrara, quel Bad Lieteunant (Il cattivo tenente) che inizia proprio con uno dei momenti più violenti nella storia del cinema. Un tremendo atto di violenza verso una suora, così come da suora era vestita Zoë nel finale di Ms. 45. Difficile credere che sia solo una coincidenza.


Ad ogni modo non ho voglia di aggiungere molto su film se non che vi prego di recuperarlo in originale, se dovesse venirvi voglia di vederlo, visto che l'adattamento italiano ha un doppiaggio risibile. C'è già molta gente là fuori che ne parla (nel bene o nel male) e io avevo solo voglia di parlare di lei che ci ha lasciato sin troppo presto. Talmente presto da non esser riuscita nemmeno ad alimentare il suo mito finendo tra le vittime sacrificali meno conosciute dello spettacolo. Mette anche un po' di tristezza buttare un occhio al sito contenitore messo su da suo marito dopo la sua morte in quel di Parigi per arresto cardiaco dovuto all'abuso di droghe. E in fondo è anche lei quella che descrive il film meglio di tutti nel già citato saggio the ship with eight sails and with fifty black cannon2 che accosta la protagonista Thana3 ad altre forti figure femminili come Giovanna D'arco, Ulrike Meinhof e Seeräuber Jenny e fa un po' di ordine su Ms. 45 e Bad Lieteunant, lasciando ben poco spazio agli sproloqui di noi esegeti circa l'eventuale femminismo dell'opera.
"No, Ms. 45 non parla di liberazione femminile, più di quanto parli di liberazione dei muti, oppure di liberazione di un'operaia di sartoria (il personaggio è una stiratrice), oppure la vostra liberazione, oppure la mia personale [..] E quindi, Ms. 45 presenta una umile, sebbene ben architettata metafora per la ribellione di chiunque venga oppresso, qualsiasi sesso esso sia. Ma la pistola è messa nella mani di una donna. Una donna si fa carico di quel messaggio universale, e così è tutto molto più potente. Ci fa venire i brividi. Uomini e donne. Differenti timbri e temperature alla base di questi brividi, ma comunque brividi che ci avvinghiano. "

Scheda tecnica
Ms. 45
Anno : 1981
Regia : Abel Ferrara
Soggetto e Sceneggiatura: Nicholas St. John
Cast :
Zoë Tamerlis Lund - Thana
Albert Sinkys - Albert
Darlene Stuto - Laurie
Helen McGara - Carol
Nike Zachmanoglou - Pamela
Abel Ferrara - Primo stupratore
Peter Yellen - Topo d'appartamento
Editta Sherman - Mrs. Nasone
S. Edward Singer - Fotografo
Stanley Timms - Pappone
Faith Peters - Prostituta
Lawrence Zavaglia - Arabo
Alex Jachno - Chauffeur
Jack Thibeau - Uomo nel bar
1. Estratto dal suo trattato del '93, ma edito solo nel 2001 postumo su un numero di New York Waste. La mia traduzione che gli avrebbe fatto perdere un po' di efficacia, ma allego per comodità di chi non è pratico di inglese, sarebbe stata: "Ho semplicemente scritto la verità, e assaporato la precisione della penetrazione, la cruda bellezza della realtà."
2. Il titolo è per l'appunto una citazione del coro inglese della canzone di Seeräuber Jenny presente nella immaginifica Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Ne approfitto per indirizzarvi alla bella versione italiana di Milva e Strehler.
3. Ovvio il riferimento a Thanatos nel nome scelto dallo sceneggiatore.

A Nyomozó | L'anaffettività di un detective

Nel fare il patologo si diventa probabilmente indifferenti alla vita. Dissezionare cadaveri, capire perché sono morti e certe volte rendersi conto che si son battuti per entrare nei Darwin Awards per poi dar loro sembianze presentabili per le cerimonie funebri non può che render cinici alla lunga. Deve essere questo l'assunto da cui è partito Attila Gigor nello scrivere il suo film che ruota tutto attorno all'anomalo Tibor Malkáv interpretato da un ottimo Zsolt Anger. Inizia infatti proprio così con l'assurda morte di una donna per uno stupido incidente e subito facciamo la conoscenza di quest'uomo dall'unica espressione.

Può sembrare improponibile, ma la forza del personaggio è proprio nella caratterizzazione che ne fa il regista, ma soprattutto l'attore, esclusivamente tramite gli eventi che gli accadono. Persino il sopracciglio che si muove nei momenti di maggior nervosismo o che dovrebbero essere tali è parte della sua totale distanza dalla restante parte del pianeta. Eppure qualcosa dentro Tibor deve esserci, se è vero che lo vediamo protrarre la mano per toccare quella della madre gravemente malata oppure prometterle che troverà i denari per poter essere operata in Svezia oppure accompagnare una donna semisconosciuta al cinema nel tentativo (non saprei definirlo altrimenti) di relazionarsi con un essere umano. In qualche modo la caratterizzazione del buon Anger mi ricorda quella di un altro suo personaggio con grandissime difficoltà relazioni visto di recente nel simpatico corto Szalontüdö (Tripe & Onions) che un po' fa sorgere il dubbio che il bravo attore sia prigioniero della sua fisicità.


Le parole del regista Attila Gigor, al secolo Attila Galambos, sembrano confermare che il film sia soprattutto volto all'esplorazione del motu proprio del protagonista:
"[..] A lui piace vivere tra i morti, perché la loro storia si è conclusa, sono cerchi chiusi.  Questa è la ragione per cui si rinchiude nella sala delle autopsie: per chiudere sé stesso lontano dal mondo dei vivi. Questa storia è incentrata su di lui che cerca la via di ritorno verso il mondo dei vivi, poiché ne vale la pena."
Questa osservazione reperibile assieme altre interviste qua, mi aiuta a dire che sarebbe un profondo errore giudicare frettolosamente A Nyomozó come un film sul confine tra bene e male e su quello che sia disposto a fare un uomo per poter ottenere quel di cui ha bisogno. Tibor si ritrova infatti coinvolto in qualcosa più grande di sé quando viene abbordato da un sinistro straniero con un occhio sfregiato. Ha bisogno di soldi Tibor e lo straniero è disposto a darceli purché commetta un omicidio che avrà risvolti inaspettatti. Il titolo, tradotto per il mercato anglofono con The Investigator, è sintomatico della svolta improvvisa del film con una incredibile sequela e catena di eventi che lo trascineranno in una investigazione ai limiti del grottesco.


Sono certamente altri i lidi dove cercare questo sotto testo del bene e del male che sembra ormai anche sciocchino da trattare in un film moderno. Per questo se c'è da apprezzare qualcosa  è proprio questo seguire l'evoluzione del personaggio che fa della sua anaffettività la sua forza. Sembra voler indossare la dura scorza di un Marlowe, ma a differenza del grande investigatore creato da Raymond Chandler rimane un impacciato ed un asociale e probabilmente non matura neanche nel finale. Non so quanto volontario fosse questo aspetto, ma è certo che la scena finale in cui trucca e pettina Judit Rezes analogamente a quanto faceva ad inizio film sui clienti del suo obitorio, mostra una sorta di adattamento del suo modo di essere al mondo dei vivi, piuttosto che una evoluzione interiore, come se ne fosse uscito solo brevemente perché costretto a salvarsi dagli eventi, per poi ritornarvi alla prima occasione.


Probabilmente non era questa l'intenzione del regista, ma è quel che passa. Purtroppo la realizzazione un po' asettica con qualche voluto picco di grottesco come le allucinazioni1 di cui è disseminato il film non aiutano assai, riducendo di gran lunga il potenziale del film e virando il discorso su altri binari, sin troppo esplorati dalla lunga tradizione del grottesco dell'est. Tutto ciò consegna un film interessante, che arricchisce l'impressione che il cinema ungherese sia in buona forma da anni e pochi ne parlino, ma non vorrei mai far passare un discreto film di esordio per un ottimo film. I premi ricevuti in patria (Miglior film di genere, Miglior attore, Miglior sceneggiatura e Miglior realizzazione) nel 2008 da questa coproduzione ungherese, svedese ed irlandese suppongo che debbano però rappresentare un buon punto d'inizio per un regista all'esordio. Prossimamente mi riprometto di tornare sul cinema ungherese, ma soprattutto sul registro del grottesco e dell'insolito come substrato su cui edificare le migliori architetture di certo cinema dell'est.

Scheda tecnica
A Nyomozó
Anno : 2008
Regia : Attila Gigor
Soggetto e Sceneggiatura: Attila Gigor
Cast :
Zsolt Anger - Tibor Malkáv
Judit Rezes - Edit
Sándor Terhes - Ferenc Szirmai
Ildikó Tóth - Mrs. Szirmai
András Márton Baló - Mehtar ben Jaron
Péter Blaskó - Artúr Kertész
Csaba Czene - Köpcös
Kata Farkas - Business woman
Tamás Fodor - Antiquarian Bookseller
Zsuzsa Járó - Segretaria
István Juhász - Schwartz, inspector
Ilona Kassai - Malkáv's mother
Éva Kerekes - Ágnes Noszfer
Réka Kiss - Girl on bicycle
Judit Lax - Infermiera
Helga Mandel - Notary
Júlia Nagy - Evike's mother
Ferenc Pusztai - József Szemben

1. Tibor sogna ad occhi aperti la clinica svedese nella quale ricoverare la mamma ed ha come guida in questi sogni un granchio parlante.


Altra curiosità è rappresentata dalla fine citazione de L'esorcista di William Friedkin, ma a parte mostrare del buon gusto cinematografico da parte del giovane regista poco aggiunge alla qualità del film.

martedì, gennaio 25, 2011

Vedma | Come la strega russa emigrò in America

E' tempo di tornare nuovamente in maniera compulsivo-ossessiva sul Viy la creatura fantastica del folklore ukraino celebrata da Gogol in una delle sue novelle. Stavolta ci sono pochi cortocircuiti da fare tra cinematografie di diverse terre come accennai qualche tempo fa tra i miei post, ma piuttosto bisogna dedicare  qualche riga a questo film assolutamente non riuscito ed imperfetto, anche se sia a rigore tassonomico materiale più adatto ad un eventuale Stracult russo piuttosto che ad Ashiotronic. Per vostra sfortuna il sottoscritto raramente si sottrae al suo compito di ricerca di cose interessanti nei più putridi acquitrini del cinema e siccome i poveri Russi non sono dotati di un loro Marco Giusti eccomi qua pronto per l'azione. Che il gioco si faccia duro che son pronto a giocare e rompermi le ossa ovviamente.

La pellicola in questione dovrebbe essere tecnicamente un vero e proprio remake del classico russo che fu oggetto della mia prima pubblicazione, ma l'inspiegabile è sempre dietro l'angolo nel mondo del cinema e probabilmente lo è di più quando l'argomento sono le streghe e i loro amichetti sovrannaturali. Fatto sta che le vicende della novella seppur mantengano formalmente la loro classica struttura vengono assolutamente eradicate e spostate in un immaginario paesino dell'entroterra americano dall'improponibile nome di Castle Ville. Già il singolare cambio di titolo la dice lunga, passare dall'iniziale «Вий: Во власти страха» (Viy: il potere della paura) al  finale Vedma (Ведьма), non solo denota un approccio abbastanza grossolano, ma anche il volere intenzionalmente spostare l'attenzione sulla strega piuttosto che sulla creatura. Mentre nell'originale adattamento e nel libro stesso la creatura fungeva da catalizzatore finale, vero e proprio deus ex-machina, materializzazione della punizione mortale per il peccato del religioso protagonista, in questa nuova versione lo sceneggiatore e il regista (Oleg Fesenko) decidono di non farlo comparire1.

Difficile anche capire la gestione della coproduzione - Russa, Estone e Finnica mi par di capire - che è stata canalizzata dalla casa distributrice russa Lizard Cinema Trade. Certamente il film è stato girato in Estonia nel 2006 con un budget di 2 milioni e mezzo di dollari americani spesi, per lo più nei sedici minuti di effetti speciali, e a quanto pare interpretato in inglese, ragione per la quale circola in un misterioso dvd dal titolo Evil edito nel 2008 dalla temibile Asylum per gli Stati Uniti. All'inizio sembra addirittura non fosse nemmeno destinato ad uscire in patria e sarà questa la ragione per cui fu solo dotato del pessimo doppiaggio inglese. La cosa sa tanto di mossa (commerciale) geniale alla Dario Argento da parte degli autori russi e ciò non può far altro che suscitare in me altra umana simpatia.


La cosa più interessante del film è per l'appunto entrare nella immane furbizia e scaltrezza di regista e sceneggiatore che vorrebbero gabbare i loro acquirenti esteri con un film dall'impianto russo spacciandolo per una specie di horror rurale americano. Sembrerebbe davvero una operazione d'altri tempi del cinemabis italiano, ma si rivela ancora più stolta di quelle casarecce nostrane che almeno mostravano spesso buona personalità ed inventiva. Fesenko e il co-sceneggiatore Matushin buttano dentro di tutto. Capita così che l'originario seminarista diventi in questo film un giornalista che indaga sugli strani accadimenti di Castle Ville. Capita che vi siano dei classici attaccabrighe redneck in un "Café" in cui va il nostro reporter. Capita che ivi incontri un prete che si porta dietro una gabbia con una gallina come se questo facesse tradizione voodoo-esorcistica. Capita, in un tripudio di originalità in quanto ad espediente narrativo, che la pioggia torrenziale e un guasto della macchina lo facciano rifugiare nell'isolata casa della strega. Capita che il giornalista finisca per scambiarsi d'abiti col prete per una serie di accadimenti che non ho assolutamente voglia di raccontare. Capita persino che si butti dentro qualche piccola venatura di J-horror nelle scene della permanenza della casa così, giusto per aumentare la confusione. Dopodiché si è finalmente pronti per passare alla classica storia delle tre notti di preghiera nella chiesa per la fanciulla uccisa da uno sconosciuto e che finirà per rivelarsi una strega.


Insomma una deviazione di diversi anni luce dalla storia originale per poi ritornare sui propri passi e riproporre il punto di forza del classico del '67. E detta così sembrerebbe anche impresa facile, ma il povero Fesenko non è certo il grande Alexander Ptushko che aveva valorizzato la parte fantastica del precedente adattamento. Bisogna anche dire a suo merito che è tecnico, ma che sembra girare a vuoto così come faceva Pascal Laugier in Saint Ange. Dolly, gru e carrelli circolari non salvano dall'infamia della mancanza di ritmo la pellicola e questa strega non ci fa spalancare gli occhi per la meraviglia come quella impersonata da Natalia Varley e nemmeno prova a sedurci come Branka Pujić nella riduzione serba. Non che si tratti di un totale fallimento perché i voli di Yevgeniya Kryukova sono belli e spettacolari, così come sono sufficientemente efficaci i già citati effetti speciali e molto belle alcune scelte di luce, ma l'aria che si respira è quella di una occasione mancata. Sembra un film tirato via in fretta, forse anche per anticipare l'arrivo del kolossal in tre parti che celebrerà la creazione fantastica di Gogol e nel quale si spera ritornerà il Viy in tutta la sua mostruosa essenza.


L'assenza del mostro eponimo è davvero imperdonabile. Si è già detto come per Gogol, che era un fior di moralista, rappresentasse per l'appunto la punizione per la fallacia del seminarista Khoma nella novella del 1835. La cosa assurda è che nonostante ciò il film risulta scioccamente moralista e perde l'occasione per rinnovare, magari attualizzare, la vicenda secondo il comune sentire russo dei tempi moderni. Invece Ivan, il giornalista travestito da prete, è costretto a scoprire la fede per potersi salvare dalle grinfie della strega ed innalzare il muro di fiamme che lo salverà durante la notte. E sia ben chiaro che non è costretto in preda a chissà quali dubbi interiori e devastanti sulle proprie credenze come il buon padre Merrin de L'esorcista dopo aver constatato il sovrannaturale, ma Fesenko ignora bellamente questo eventuale sotto testo e si butta a capofitto in una sorta di scelta di convenienza. La fede ti salva e basta. Provare per credere, credere per sopravvivere. In questo non si può dire che il regista non sia riuscito finalmente ad avvicinare i suoi tanto favoleggiati horror americani dallo sciocco impianto. Sembra quasi di dover dare ragione allo scrittore ed intellettuale Dmitrii Bykov che parla di una impossibilità di far cinema dell'orrore in Russia3 nell'articolo ispirato per l'appunto dalla visione di questo film. Onestamente però continuo a credere nelle grandi possibilità dell'immaginario dell'Est al contrario dell'illustre penna.


Tornando ai crediti troviamo molti attori estoni, uno lettone e giusto i protagonisti russi tra cui la bella protagonista Yevgeniya Kryukova (classe 1971), talmente bella da diventare ragazza del mese nel paginone centrale del playboy russo, ma non abbastanza da riuscire a scalfire il mito della bella Natalia Varley che l'aveva preceduta nello stesso ruolo nel 1967. L'altro protagonista Valery Nikolaev è decisamente più famoso visto che è una presenza abbastanza abituale nelle produzioni americane che prevedono l'esistenza di qualche originario della Russia. Bisogna dire che è anche abbastanza bravo ed espressivo forse anche in ragione del fatto che fosse il più preparato a recitare le proprie scene in inglese3. Si cala un po' troppo nel personaggio invece uno degli attori estoni più celebrati (Lembit Ulfsak) che interpreta l'importante parte del padre della strega e che in questo adattamento è anche lo sceriffo della temibile "County Police" di Castle Ville. C'è un bellissimo adesivo stampato in tipografia con carattere Times New Roman e attaccato sul lato di una berlina russa che ci informa di tale cosa suscitando più di qualche ilarità durante l'arco della visione. Se non fosse già bastato a far inarcare il sopracciglio l'utilizzo degli stereotipi più beceri sui campagnoli Americani, come i già citati bifolchi del Café e le cene al tavolone del villaggio tutti assieme appassionatamente, è sufficiente quindi aguzzare la vista4 per sogghignare un po'. Speriamo solo che dopo questo sia passata ad Oleg Fesenko la fantasia di riuscire ad americanizzare qualcosa di totalmente alieno a quelle lande.

Scheda tecnica
Vedma
Anno : 2006
Regia : Oleg Fesenko
Soggetto : Nikolai Gogol
Sceneggiatura: Oleg Fesenko, Igor Matushin
Cast :
Lembit Ulfsak - Poliziotto
Valery Nikolaev - Ivan
Yevgeniya Kryukova - Meryl la strega
Ita Ever - Strega anziana
Juhan Ulfsak - Vicesceriffo
Arnis Litsitis
Jaan Rekkor
Tõnu Kark

1. Potrebbe anche essere accaduto che visto il primigenio titolo la presenza della creatura fosse prevista, ma che sia stata tagliata durante la realizzazione per evidenti motivi di budget. Altro titolo circolato in pre-produzione è «Последняя молитва» (L'ultima preghiera) che fa invece esplicito riferimento al moraleggiante e delirante sotto testo del finale.


2. In realtà questa teoria che l'autore cerca di comprovare con più ragioni, tra le quali il fatto che in Russia si deve avere paura della realtà attuale e del degrado rispetto al resto del mondo, sebbene sia rispettabile e mostri un'ottima conoscenza del cinema della paura estero sembra più un discorso critico verso la propria patria. Oltre tutto non è nemmeno nuova visto che la poca diffusione di questo tipo di cinema in Russia era dovuta al fatto che fosse ritenuto superfluo da parte degli addetti ai lavori durante il periodo sovietico. Al riguardo si può leggere qualche dettaglio qua.

3. Ruoli per lui in altri capolavori della categoria Stracult come Il santo di Noyce e U-turn di Stone, ma il simpatico attore merita rispetto visto che le biografie online lo descrivono come un ex-giocatore di hockey tuttofare che è capace di fare da stunt (ouch!) e coreografo (sigh!) nelle sue scene d'azione data la sua preparazione come ballerino (gulp!).

4. L'epic fail totale è rappresentato soprattutto dalla comparsa nel finale dell'adesivo estone dietro la presunta auto della polizia, come se non fosse stato abbastanza vedere una berlina russa far finta di essere una Cadillac di proprietà del giornalista.