lunedì, aprile 25, 2011

L'Angelo della Vendetta | Immondizia dell'anima

"I simply wrote the truth, 
and relished the penetrating sharpness, 
the harsh beauty of reality." 1
Zoë Tamerlis Lund

Nel mio singolare caso di vecchio decrepito trentenne l'adolescenza si è compiuta negli anni '90 e ricordo in maniera definita come Abel Ferrara fosse già un regista feticcio per me. Difficile anche descrivere quanto mi piacquero film come Occhi di Serpente ed anche il vilipeso Blackout per non dovere andare a citare l'ovvio e scontato (cattivo) Tenente interpretato da Harvey Keitel. Film sporchi, reali, crudi dove la violenza entrava in ogni luogo: nei vicoli, nei salotti buoni, nei set cinematografici, finanche nei luoghi sacri. Violenza che andava di pari passo con la droga e con il degrado umano. Film che piacevano persino a quegli amici che nei film cercavano spesso solo l'estremo delle strade e di vite sregolate, capaci di oscillare per l'appunto da una visione pop e luccicante del disagio giovanile del britannico Trainspotting fino alle lerce rappresentazioni fatte con martello e scalpello dell'italico Ragazzi Fuori senza alcuna capacità di discriminazione. A parte il singolare minestrone giovanile che fondamentalmente avviliva anche me è singolare notare come tutto ciò sia sparito dai film americani degli ultimi decenni; per intravedere un cartone rotto in un vicolo bisogna aguzzare la vista e le puntate più glamour di Miami Vice sembrano di un lerciume unico al confronto del moderno Urban Movie nordamericano.



Tutto questo per dire che anche vedere un film certamente minore come L'angelo della vendetta (più noto internazionalmente come Ms. 45) della filmografia di Ferrara mi riconcilia col cinema statunitense che in quei tempi era ancora capace di assestare i suoi colpi. Ad ogni modo la pellicola con tutti i suoi difetti e le sue ingenuità di un regista ancora acerbo è particolarmente significativa. Col tempo maturando avrei anche imparato che non è tutto oro quel che luccica e che molto del merito dei suoi film vanno ai suoi collaboratori classici, anche perché solo i meno svegli si sono lasciati sfuggire il grado di compenetrazione del regista con le sue storie. Insomma non è certo la prima volta che un regista trasmette alle sue storie la sua esperienza personale e riesce per questo a passare l'agognato sotto-testo \ meta-messaggio e fondamentalmente mi interessa poco, però mi avvicina significativamente a quello di cui voglio parlare. E quello di cui voglio invece parlare è l'attrice protagonista Zoë Tamerlis. Qualcosa di più di un semplice corpo attoriale, che già preso separatamente era notevole e riempiva la scena con le sue caratteristiche somatiche accentuate. Labbra, occhi e ossa bene in vista, come se la vita volesse far di tutto per mostrare quanto e come incidesse quel corpo. Così è un esercizio sin troppo facile per Ferrara, quello di puntare la camera su Zoë e farle bucare lo schermo.


In questa maniera il film è qualcosa che vive in sola funzione del mezzo scelto per canalizzarlo ovvero l'attrice. Lo script di Nicholas St. John, collaboratore abituale di Ferrara, non brilla certo per originalità e per scrittura come ammesso dalla stessa interprete ed è forse grazie a questo che fu capace di impossessarsi mirabilmente del personaggio. Zoë non è una diciottenne modella capitata lì per caso per interpretare una donna stuprata che decide di diventare una killer di uomini, ma è già una donna intera con tutte le sue sfaccettature. Una donna più che una sceneggiatrice, che sarebbe tornata anni dopo sull'argomento per scrivere uno dei capolavori di Abel Ferrara, quel Bad Lieteunant (Il cattivo tenente) che inizia proprio con uno dei momenti più violenti nella storia del cinema. Un tremendo atto di violenza verso una suora, così come da suora era vestita Zoë nel finale di Ms. 45. Difficile credere che sia solo una coincidenza.


Ad ogni modo non ho voglia di aggiungere molto su film se non che vi prego di recuperarlo in originale, se dovesse venirvi voglia di vederlo, visto che l'adattamento italiano ha un doppiaggio risibile. C'è già molta gente là fuori che ne parla (nel bene o nel male) e io avevo solo voglia di parlare di lei che ci ha lasciato sin troppo presto. Talmente presto da non esser riuscita nemmeno ad alimentare il suo mito finendo tra le vittime sacrificali meno conosciute dello spettacolo. Mette anche un po' di tristezza buttare un occhio al sito contenitore messo su da suo marito dopo la sua morte in quel di Parigi per arresto cardiaco dovuto all'abuso di droghe. E in fondo è anche lei quella che descrive il film meglio di tutti nel già citato saggio the ship with eight sails and with fifty black cannon2 che accosta la protagonista Thana3 ad altre forti figure femminili come Giovanna D'arco, Ulrike Meinhof e Seeräuber Jenny e fa un po' di ordine su Ms. 45 e Bad Lieteunant, lasciando ben poco spazio agli sproloqui di noi esegeti circa l'eventuale femminismo dell'opera.
"No, Ms. 45 non parla di liberazione femminile, più di quanto parli di liberazione dei muti, oppure di liberazione di un'operaia di sartoria (il personaggio è una stiratrice), oppure la vostra liberazione, oppure la mia personale [..] E quindi, Ms. 45 presenta una umile, sebbene ben architettata metafora per la ribellione di chiunque venga oppresso, qualsiasi sesso esso sia. Ma la pistola è messa nella mani di una donna. Una donna si fa carico di quel messaggio universale, e così è tutto molto più potente. Ci fa venire i brividi. Uomini e donne. Differenti timbri e temperature alla base di questi brividi, ma comunque brividi che ci avvinghiano. "

Scheda tecnica
Ms. 45
Anno : 1981
Regia : Abel Ferrara
Soggetto e Sceneggiatura: Nicholas St. John
Cast :
Zoë Tamerlis Lund - Thana
Albert Sinkys - Albert
Darlene Stuto - Laurie
Helen McGara - Carol
Nike Zachmanoglou - Pamela
Abel Ferrara - Primo stupratore
Peter Yellen - Topo d'appartamento
Editta Sherman - Mrs. Nasone
S. Edward Singer - Fotografo
Stanley Timms - Pappone
Faith Peters - Prostituta
Lawrence Zavaglia - Arabo
Alex Jachno - Chauffeur
Jack Thibeau - Uomo nel bar
1. Estratto dal suo trattato del '93, ma edito solo nel 2001 postumo su un numero di New York Waste. La mia traduzione che gli avrebbe fatto perdere un po' di efficacia, ma allego per comodità di chi non è pratico di inglese, sarebbe stata: "Ho semplicemente scritto la verità, e assaporato la precisione della penetrazione, la cruda bellezza della realtà."
2. Il titolo è per l'appunto una citazione del coro inglese della canzone di Seeräuber Jenny presente nella immaginifica Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Ne approfitto per indirizzarvi alla bella versione italiana di Milva e Strehler.
3. Ovvio il riferimento a Thanatos nel nome scelto dallo sceneggiatore.

A Nyomozó | L'anaffettività di un detective

Nel fare il patologo si diventa probabilmente indifferenti alla vita. Dissezionare cadaveri, capire perché sono morti e certe volte rendersi conto che si son battuti per entrare nei Darwin Awards per poi dar loro sembianze presentabili per le cerimonie funebri non può che render cinici alla lunga. Deve essere questo l'assunto da cui è partito Attila Gigor nello scrivere il suo film che ruota tutto attorno all'anomalo Tibor Malkáv interpretato da un ottimo Zsolt Anger. Inizia infatti proprio così con l'assurda morte di una donna per uno stupido incidente e subito facciamo la conoscenza di quest'uomo dall'unica espressione.

Può sembrare improponibile, ma la forza del personaggio è proprio nella caratterizzazione che ne fa il regista, ma soprattutto l'attore, esclusivamente tramite gli eventi che gli accadono. Persino il sopracciglio che si muove nei momenti di maggior nervosismo o che dovrebbero essere tali è parte della sua totale distanza dalla restante parte del pianeta. Eppure qualcosa dentro Tibor deve esserci, se è vero che lo vediamo protrarre la mano per toccare quella della madre gravemente malata oppure prometterle che troverà i denari per poter essere operata in Svezia oppure accompagnare una donna semisconosciuta al cinema nel tentativo (non saprei definirlo altrimenti) di relazionarsi con un essere umano. In qualche modo la caratterizzazione del buon Anger mi ricorda quella di un altro suo personaggio con grandissime difficoltà relazioni visto di recente nel simpatico corto Szalontüdö (Tripe & Onions) che un po' fa sorgere il dubbio che il bravo attore sia prigioniero della sua fisicità.


Le parole del regista Attila Gigor, al secolo Attila Galambos, sembrano confermare che il film sia soprattutto volto all'esplorazione del motu proprio del protagonista:
"[..] A lui piace vivere tra i morti, perché la loro storia si è conclusa, sono cerchi chiusi.  Questa è la ragione per cui si rinchiude nella sala delle autopsie: per chiudere sé stesso lontano dal mondo dei vivi. Questa storia è incentrata su di lui che cerca la via di ritorno verso il mondo dei vivi, poiché ne vale la pena."
Questa osservazione reperibile assieme altre interviste qua, mi aiuta a dire che sarebbe un profondo errore giudicare frettolosamente A Nyomozó come un film sul confine tra bene e male e su quello che sia disposto a fare un uomo per poter ottenere quel di cui ha bisogno. Tibor si ritrova infatti coinvolto in qualcosa più grande di sé quando viene abbordato da un sinistro straniero con un occhio sfregiato. Ha bisogno di soldi Tibor e lo straniero è disposto a darceli purché commetta un omicidio che avrà risvolti inaspettatti. Il titolo, tradotto per il mercato anglofono con The Investigator, è sintomatico della svolta improvvisa del film con una incredibile sequela e catena di eventi che lo trascineranno in una investigazione ai limiti del grottesco.


Sono certamente altri i lidi dove cercare questo sotto testo del bene e del male che sembra ormai anche sciocchino da trattare in un film moderno. Per questo se c'è da apprezzare qualcosa  è proprio questo seguire l'evoluzione del personaggio che fa della sua anaffettività la sua forza. Sembra voler indossare la dura scorza di un Marlowe, ma a differenza del grande investigatore creato da Raymond Chandler rimane un impacciato ed un asociale e probabilmente non matura neanche nel finale. Non so quanto volontario fosse questo aspetto, ma è certo che la scena finale in cui trucca e pettina Judit Rezes analogamente a quanto faceva ad inizio film sui clienti del suo obitorio, mostra una sorta di adattamento del suo modo di essere al mondo dei vivi, piuttosto che una evoluzione interiore, come se ne fosse uscito solo brevemente perché costretto a salvarsi dagli eventi, per poi ritornarvi alla prima occasione.


Probabilmente non era questa l'intenzione del regista, ma è quel che passa. Purtroppo la realizzazione un po' asettica con qualche voluto picco di grottesco come le allucinazioni1 di cui è disseminato il film non aiutano assai, riducendo di gran lunga il potenziale del film e virando il discorso su altri binari, sin troppo esplorati dalla lunga tradizione del grottesco dell'est. Tutto ciò consegna un film interessante, che arricchisce l'impressione che il cinema ungherese sia in buona forma da anni e pochi ne parlino, ma non vorrei mai far passare un discreto film di esordio per un ottimo film. I premi ricevuti in patria (Miglior film di genere, Miglior attore, Miglior sceneggiatura e Miglior realizzazione) nel 2008 da questa coproduzione ungherese, svedese ed irlandese suppongo che debbano però rappresentare un buon punto d'inizio per un regista all'esordio. Prossimamente mi riprometto di tornare sul cinema ungherese, ma soprattutto sul registro del grottesco e dell'insolito come substrato su cui edificare le migliori architetture di certo cinema dell'est.

Scheda tecnica
A Nyomozó
Anno : 2008
Regia : Attila Gigor
Soggetto e Sceneggiatura: Attila Gigor
Cast :
Zsolt Anger - Tibor Malkáv
Judit Rezes - Edit
Sándor Terhes - Ferenc Szirmai
Ildikó Tóth - Mrs. Szirmai
András Márton Baló - Mehtar ben Jaron
Péter Blaskó - Artúr Kertész
Csaba Czene - Köpcös
Kata Farkas - Business woman
Tamás Fodor - Antiquarian Bookseller
Zsuzsa Járó - Segretaria
István Juhász - Schwartz, inspector
Ilona Kassai - Malkáv's mother
Éva Kerekes - Ágnes Noszfer
Réka Kiss - Girl on bicycle
Judit Lax - Infermiera
Helga Mandel - Notary
Júlia Nagy - Evike's mother
Ferenc Pusztai - József Szemben

1. Tibor sogna ad occhi aperti la clinica svedese nella quale ricoverare la mamma ed ha come guida in questi sogni un granchio parlante.


Altra curiosità è rappresentata dalla fine citazione de L'esorcista di William Friedkin, ma a parte mostrare del buon gusto cinematografico da parte del giovane regista poco aggiunge alla qualità del film.