Le Pampas non sono proprio la fine del mondo, perché bisogna arrivare nella terra del fuoco per raggiungerla, ma la desolazione è quella. Questa desolazione annulla le leggi della convivenza a cui ci si abitua nelle città. Chiaro che la situazione nelle metropoli di un'Argentina in crisi non sarà poi bella di questi tempi, almeno non come ce la descrissero i romanzi di due esuli come Cortázar o Soriano: Fatta di cafè, medio borghesi, intellettuali e personaggi pittoreschi, così come sembrava volessero ricordarla o sognarla piuttosto che realmente descriverla.
Il film di Albertina Carri colpisce in questo. Ti dice che in qualche modo l'epoca dei racconti da esuli con il sogno lontano di una patria paradiso (perduto) è finita da un pezzo. D'altra parte lei non è persona che ha visto accadere l'orrore della dittatura argentina, ma ci è nata dentro. C'è poco da raccontare a mo' di sogno se sei rimasta orfana a quattro anni dei genitori, divenuti altre anonime righe nelle liste dei desaparecidos di quella dittatura. E come tanti registi sudamericani della sua generazione non ha nessuno dei ricordi da cui partire per poter sviluppare la sua prosa. Al più rimane la poetica, quella sì, sudamericana, che non cambia le modalità di espressione, ma le modella secondo ritmi incomprensibili per chi è abituato ad altri linguaggi di espressione per immagini. Le lentezze del cinema sudamericano cadenzate dai bruschi tagli di montaggio, le storie che iniziano nel nulla e in quel nulla si annientano non appartengono al linguaggio chi è cresciuto con regole, consce o meno consce, stabilite da decenni di cinema europeo o nordamericano. Sarà per questo che ci sentiamo un po' turisti quando guardiamo un film proveniente da quelle parti.
Se sia turismo del dolore è tutta un'altra questione, perché è lecito domandarsi quanto si sia in grado di provare empatia verso le vicende di questi reietti delle pampas. Per quello la Carri, nel caso presente, ma al pari di altri suoi conterranei non usa e non userà mai toni pietisti. L'urgenza di raccontare è diversa da quella nostra che del pietismo ne siamo la fucina. Le basta uscire di casa e fare qualche chilometro per osservare questa realtà dove cane mangia cane, per trovare forse uno luogo simile a questo immaginario nucleo abitativo chiamato La Rabia. Nati, per esempio, è la bimba muta protagonista con crisi di panico che la fanno assomigliare spesso a un maiale che urla al macello. La sua gente è ormai lontana dal cono di luce emanato dagli ultimi fari, quelli più periferici, della società civile abbandonata chissà quanto tempo fa. E proprio ad una riunione attorno al macello di un maiale, mostrata in tutta la sua brutalità che rende il film invedibile a qualsiasi animalista, nasce il conflitto che fa da perno centrale alla vicenda. Come se poi servisse una scusa per l'esplosione di violenza finale in un microcosmo dimenticato dal resto della modernità, che se si affaccia è giusto nella felpa del WWF indossata dalla madre di Nati mentre pulisce il maiale dalle proprie budella. Che tetra ironia che ha il progresso.
Brava, quanto brutale, la Carri, che oltre questo sperimenta mescolando bellissime e convincenti animazioni quando deve mostrare il mondo con gli occhi di Nati. I disegni stentati della bambina prendono vita e raccontano forse meglio l'inspiegabile realtà che li ha generati. Sarà forse brutto viverlo questo sudamerica, ma quanta arte che sta generando. A distanza di secoli è ancor tutto da scoprire da noi stronzi colonialisti.
Scheda tecnica
La Rabia
AKA: Anger
Anno : 2008
Regia : Albertina Carri
Sceneggiatura: Albertina Carri
Cast :
Analía Couceyro
Javier Lorenzo
Víctor Hugo Carrizo
Nazarena Duarte
Gonzalo Pérez
Dalma Maradona