lunedì, novembre 29, 2010

El Traspatio | Croci rosa nel deserto


"Le ferite e gli occhi sono bocche che non hanno mai mentito"
Pedro Calderón de la Barca
Mi è capitato più volte durante l'anno di interrogarmi sulle modalità di rappresentazione di eventi reali che segnano profondi solchi nella storia e lasciano ferite indelebili e difficilmente cicatrizzabili. Non mi riferisco al confine della rappresentabilità e alla resa del dolore di cui in parte ho parlato per Va' e vedi, ma proprio il rapportarsi ad eventi traumatici di storia non condivisa, controversa o quantomeno fonte perpetua di discussioni a sfondo politico, che scavalcano il senso vero della tragedia su cui fondano. Il Sud America in questo senso rappresenta da sempre una vera e propria incubatrice per queste tensioni. Quante innumerevoli cose si dovrebbero raccontare di quei posti, ma puntualmente vengono evitate. Quanta storia viene taciuta, negata o travisata a tal punto da irritare chiunque abbia un minimo di nozioni storiografiche di quei luoghi.

Per questo tanti cineasti, ma oserei dire artisti in genere, provenienti da quei posti sentono l'urgenza di parlare di codeste cose, ma si trovano di fronte lo scoglio del registro da adottare per diverse ragioni. L'amor della verità, la distanza dello sguardo e non ultimo il rispetto delle vittime sono da tenere in conto. Per esempio quest'anno ho fatto riflessioni simili dopo la visione di Post Mortem, il bel film del cileno Pablo Larraín che è stato a Venezia e stranamente1 non ha vinto al posto di un qualsiasi film della Coppola. Come può un Cileno rapportarsi con un evento come quello disgraziato di quell'undici settembre2 del 1973 in cui fu destituito con brutale assassinio il presidente Allende? Ebbene Larraín ha scelto la freddezza di una rappresentazione asciutta e asettica, si avverte per tutta la pellicola la sua stessa tensione, che sfocia quasi in paura e lambisce la commozione nel momento più duro del film: l'autopsia del presidentissimo. Questo è quanto serve per provocare empatia nello spettatore, un film per quanto imperfetto finisce per essere dolorosamente necessario e trova la sua ragione di essere. Per estensione si potrebbe anche dire che è un film che fa della sua debolezza di fronte al fatto storico compiuto la sua stessa forza.


Con questo non voglio dire che questo film di Carrera è minimamente accostabile a quello di Larrain, ma mi sembra giusto chiamare in causa il cileno come controesempio proprio perché tutto questo garbo e questa volontà di trasmettere empatia finiscono per essere assenti nel film messicano. I fatti reali da cui prende spunto El traspatio sono di gran lunga diversi dalla vicenda cilena, ma sono potenzialmente una fonte filmica incredibile, una vicenda che appunto preme per essere narrata e potrebbe dar vita ad uno di quei film definitivi sul dolore di un popolo e sulla barbarie umana. Quindi anche se si tratta di film diversi che adottano registri diversi, usano stili diversi e vogliono approdare su lidi diversi, penso sia meglio partire dalla comune difficoltà di rappresentazione e di narrazione per poterne parlare adeguatamente.


Il Messico è  posto dove la morte aleggia con grande facilità, dove c'è una guerra, quella tra narcotrafficanti che è costata 9600 vite nel 2009 e quest'anno ha già sfondato la soglia dei 10000.  Ciudad Juárez è una delle città più popolose, posta nello stato di Chiuaua sul confine con gli USA, per la precisione con El Paso. Carrera sottolinea la cosa con una bella panoramica durante i titoli di testa che va da un estremo all'altro, dal Messico agli Usa e il titolo originale El traspatio, come quello internazionale The Backyard, sottolineano la natura di Juárez come cortile posteriore di El Paso. E' in questo quadro di morte e desolazione che l'abisso più profondo è raggiunto dagli omicidi di donne, non narcos quindi, ma semplici lavoratrici delle maquilladoras ovvero le fabbriche dei gringos che sfruttano il lavoro sottopagato al di là del confine. Sono sicuro che vi siano statistiche più dettagliate e precise di quelle di wikipedia che parla di circa 5000 vittime donna dal 1993 ad oggi, ma è un situazione talmente caotica che è estremamente difficile orientarsi all'interno della tragedia.


Le statistiche sono un dettaglio freddo, ma importante per capire la profondità dell'abisso. Non è un caso che una dei migliori parti artistici che ha sdoganato presso l'opinione pubblica il problema Juárez sia un ottimo videoclip degli At the Drive-In, dove i numeri contano molto e la band rinuncia a farsi vedere con gli strumenti o ad accennare minimamente una qualsiasi coreografia per la loro canzone, proprio per non rovinare il senso del video o inficiarne il messaggio informativo. Sarebbe bello poter dire lo stesso di questo film che, sebbene ci inondi di statistiche sui titoli di coda dandoci conto di misoginia e crimini verso le donne nel Messico, ma anche nel mondo intero globalizzando il messaggio, finisce per drammatizzare troppo le avventure della poliziotta protagonista. Eppure ci sono tante cose buone nel film, a partire dall'ottima resa visiva che affronta adeguatamente gli snodi narrativi di una sceneggiatura che, sebbene ottima in più di un punto, finisce inevitabilmente per perdere un po' di pezzi per strada. Il problema è forse nell'eccessiva scrittura dell'insieme narrativo, là dove invece si sarebbe potuto lasciar fare un po' all'istinto su una vicenda dove l'aspetto emotivo conta assai.


Ad esempio ho apprezzato molto quando la volontaria per i diritti delle donne dice al telefono con una giornalista scettica sull'interesse dei lettori per gli omicidi:
"Potresti fare la prima pagina su come gli assassini di donne nel nostro paese non facciano più notizia"
Questo che trovo uno dei passaggi meglio riusciti della sceneggiatura è un po' il nocciolo della questione che dà il polso della situazione e sembra il giusto tributo alla presa di coscienza3 delle donne della tragedia che le stava investendo in quegli anni: l'omicidio visto come normalità quotidiana in un qualsiasi paese del mondo non può e non deve essere accettato in alcuna maniera. Non conosco bene le ragioni della popolarità estrema della sceneggiatrice Sabina Berman in Messico, che mi risulta scrittrice di molte commedie di successo nonché produttrice di questo film, ma indubbiamente si tratta di un'alta professionista del settore. Il suo lavoro di ricerca è certamente notevole, poiché nelle due ore di film nulla viene trascurato e vengono seguite tutte le piste per dirla in gergo poliziesco. La frase è in tema perché la pellicola finisce inevitabilmente per assomigliare ad un poliziesco, proprio per non lasciarsi dietro alcuna ombra, affronta ogni oscurità della faccenda proponendo tutte le varie interpretazioni date al femminicidio. Dall'ipotesi del serial killer, a quella della tratta degli esseri umani fino al deflagrare dell'ipotesi più plausibile della terra di nessuno in cui tutti sono liberi di fare quel che vogliono fare. Il ritratto finale di Juárez è effettivamente quello di una città senza legge dove tutti i malati di mente e i criminali del mondo possono andare e commettere qualsiasi orrore rimanendo impuniti.


L'autrice bisogna dire che è anche chiara da questo punto di vista. Accusa il Neoliberismo e le multinazionali che vanno a lucrare in Messico sul costo del lavoro bassissimo e le rende complici di questo brutale circolo vizioso. Accusa le autorità del posto di essere corrotte e presente la cosa come un ciclo continuo di male e avidità che si rigenerano continuamente di generazione in generazione4. Ebbene tutto ciò è positivo, sia chiaro, ma si ritorna sul problema del linguaggio di rappresentazione di cui parlavo al principio del post. Purtroppo la sceneggiatrice pur mostrando tutta la buona volontà del mondo commette l'errore di fare troppo perno sui suoi personaggi. La protagonista interpretata da Ana de la Reguera è una eroina e ce lo dice il nome sin troppo didascalico che accosta il candido tono bianco (Blanca) al coraggio (Bravo). Dall'inizio alla fine del film la vediamo divincolarsi nelle difficoltà, crescere, evolvere e persino arrivare ad un confronto finale con l'oscurità. Insomma vediamo accadere proprio tutto quello che è scritto nel manuale del perfetto sceneggiatore di Hollywood, solo che questo non è Il Silenzio degli Innocenti ma un film ispirato a fatti reali5.


Mi sembra molto mirata ed equilibrata al riguardo la lunga riflessione di Marylin Ferdinand sul film. Giustamente si riflette su quanto questo determinare una figura eroica in un film sulle vittime sia un "passo indietro" del femminismo in concezione moderna ed infici il risultato finale di un altrimenti ottimo film, ma non mi dilungo che non adoro ripetere cose già dette mirabilmente da altre persone. Oltre tutto il buon Carrera gira veramente bene ed è in forma strepitosa nel tradurre il tutto in immagini con la giusta ed equilibrata dose di violenza scenica che risulta perfettamente funzionale alla storia. Ci si potrebbe anche chiedere allora se qualche autore diverso avrebbe potuto far di meglio, ma tutto ciò è destinato a rimanere nel campo delle ipotesi fantasiose. Alla fine rimane un bel film, che poteva certamente essere migliore: doloroso, necessario, ma siamo ancora in attesa del capolavoro.


Almeno per quanto criticabile è una fortuna che lo script della Berman non presenti vampiri o fantastici intrecci spionistici6. Consola il fatto che si sarebbe potuto far di peggio. Da questo punto di vista faccio anche finta di non sapere che esista un film Hollywoodiano diretto da Gregory Nava, con Jennifer Lopez e Antonio Banderas. Alla luce di questa cosa si potrebbe forse perdonare quella chiusa finale, molto discutibile e che cerco di non raccontare per chi volesse mai vedere il film, in cui si fronteggiano Ana de la Reguera e Jimmy Smits, che fa l'imprenditore cattivo. Smits che è volto noto anche dalle nostre parti per la sua consistente parte in diverse serie di Law & Order è un tremendo autogol della produzione, che praticamente svela le carte in tavola e lascia la sensazione di aver visto una bella puntata del serial americano che guarda caso si occupa spesso di reati a sfondo sessuale. Insomma non si sa bene che dire, forse è un buon film prodotto da una major o forse è un film sbagliato fatto da gente volenterosa, ma l'aspetto promozionale spinto del sito web mi fa onestamente propendere per la prima ipotesi. Certo è che del travaglio e del dolore necessario per la resa di certi fatti rimane un po' poco. Decisamente troppo poco per le ragazze innocenti di Juárez.

Scheda tecnica
El traspatio
Anno : 1985
Regia : Carlos Carrera
Soggetto e Sceneggiatura : Sabina Berman
Cast :
Ana de la Reguera - Blanca Bravo
Asur Zagada
Marco Pérez - Fierro
Joaquín Cosio - Peralta
Alejandro Calva - Comandante
Jimmy Smits - Mickey Santos
Carolina Politi - Sara
Amorita Rasgado - Márgara
Enoc Leaño - Gobernador
Adriana Paz - Hilda
Lisa Owen - Silvia
Sayed Badreya - El Sultán
Juan Carlos Barreto - Alvarez
Paloma Arredondo - Elvia
Odette Berumen - Paula
1. C'è dell'ironia nell'aria se non si fosse capito.
2. Lascio notare come questo altro undici settembre di terrore non sia diventato una data monolite da ricordare al di fuori del paese in cui è accaduto sperando che susciti qualche riflessione.
3. Ci sarebbe da citare tutto il movimento di donne che cercano di opporsi e di ottenere giustizia per tutta questa barbarie. Purtroppo non ho il tempo di dilungarmi, ma segnalo almeno l'associazione più importante dal bellissimo e malinconico nome: Nuestra Hijas de Regreso a Casa (Le nostre figlie di ritorno a casa). Se aveste interesse e voglia lì si trovano i collegamenti a tutte le risorse, compreso l'elenco di tutta la documentaristica (libri e video) al riguardo che evito di fare io. Dovrebbe anche essere loro l'iniziativa, se non vado errato, delle simboliche croci rosa installate là dove vi fu il ritrovamento più numeroso ed importante di vittime, momento talmente grave e drammatico da essere ripreso anche nel film.
4. Va dato atto alla Berman la sua esplicita chiarezza che evita ogni giro di parole e va dritta al punto anche nelle interviste:
" Dapprima avevo pensato di raccontare i fatti relativi agli assassinii delle donne. Allora mi dissi: 'Quello è già stato fatto in alcuni documentari e libri'. Quindi mi resi conto che quel che volevo raccontare, al di là dei fatti, era ciò che ruotava attorno alle uccisioni. Una società multiculturale il cui fatalismo deborda nell'indifferenza. Uno stato che fallisce nei suoi doveri più elementari. Una economia neoliberale e globalizzata. E la vicinanza col paese più ricco del pianeta, gli Stati Uniti"
5. Un altro confronto sul linguaggio di rappresentazione del reale si potrebbe fare con un altro grande film ispirato a fatti reali come Memories of Murder. Anche lì vi sono i delitti di un omicida seriale koreano realmente esistito e rimasti impuniti che vengono usati come sfondo, i protagonisti girano in tondo, seguono le tracce, vivono micro-drammi, ma non vi è alcuna logica della caccia all'assassino che deve raggiungere il suo climax. Anzi l'unico momento che può essere assunto a tale è solo un riflesso dell'emotività di uno dei protagonisti. In tale maniera viene preservato l'aspetto doloroso, insoluto e vivo della storia.
6. Mi si perdoni l'ironia, ma proprio mentre cerco di affrontare il discorso sul registro da adottare nella rappresentazione di orrori reali storici mi imbatto in queste opere di fiction. Lungi da me cercare di interpretare le intenzioni degli autori di questi libri, magari nel primo caso il vampirismo è una sottile metafora per un raffinatissimo sottotesto. Nella sinossi sul sito della casa editrice però leggo:
Ciudad Juarez, citta' messicana di confine che conta piu' di un milione di abitanti, e' da anni devastata dalla guerra tra i cartelli della droga per il controllo del traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. Dal 1993, Juarez e' altresi' tristemente famosa a causa degli innumerevoli omicidi perpetrati ai danni di giovani donne, generalmente di umile estrazione sociale. A oggi si contano oltre 5000 assassinii, tra cadaveri rinvenuti nel deserto e ragazze scomparse e mai più ritrovate. Le vittime sono quasi tutte di eta' compresa tra i 10 e i 40 anni, e subiscono sempre lo stesso trattamento: rapite mentre vanno al lavoro oppure sulla strada del ritorno a casa, vengono violentate, torturate, mutilate e uccise.
E' proprio in questo crogiuolo di corruzione, violenza e morte che, nel mezzo di un viaggio da Miami a Los Angeles, finisce casualmente David, eccentrico freelance di una rivista inglese che si propone di 'esaminare razionalmente i fenomeni irrazionali'. Una tigre siberiana bianca gli aprira' la strada verso un mondo di tenebra, dove l’orrore e' ancora più terrificante di quello offerto quotidianamente dalla cronaca…
Mi sembra esemplare di come non vorrei fosse una opera di finzione su queste cose. Un primo capoverso (di 117 battute) inquadra storicamente la cronaca, mentre il secondo (appena 64 battute) butta là l'epifania di una tigre siberiana nelle sabbie del deserto che dovrebbe deviarla subito sul lato mistico-esoterico che dovrebbe interessare l'amante di quel settore letterario. Quindi a cosa serve la tragedia di Juárez in questo caso? Spero che il testo smentisca l'impressione che sia un facile salottino in cui sviluppare una storia generica x di vampiri, magie e robe varie. Onestamente non ho voglia di indagare per poter dare certezza alle mie riserve e sono sicuro che ci sarà in giro qualche carampana di questo autore che verrà a difendere il suo operato e mi spiegherà perché sono in errore. Debbo ammettere che per ora la cosa non mi sembra tanto lontana dalla morbosità dei nostri talk show in cui viene creato uno sfondo lercio per poter far discettare uomini e donne di spettacolo su argomenti che non li tangeranno mai.