lunedì, novembre 29, 2010

El Traspatio | Croci rosa nel deserto


"Le ferite e gli occhi sono bocche che non hanno mai mentito"
Pedro Calderón de la Barca
Mi è capitato più volte durante l'anno di interrogarmi sulle modalità di rappresentazione di eventi reali che segnano profondi solchi nella storia e lasciano ferite indelebili e difficilmente cicatrizzabili. Non mi riferisco al confine della rappresentabilità e alla resa del dolore di cui in parte ho parlato per Va' e vedi, ma proprio il rapportarsi ad eventi traumatici di storia non condivisa, controversa o quantomeno fonte perpetua di discussioni a sfondo politico, che scavalcano il senso vero della tragedia su cui fondano. Il Sud America in questo senso rappresenta da sempre una vera e propria incubatrice per queste tensioni. Quante innumerevoli cose si dovrebbero raccontare di quei posti, ma puntualmente vengono evitate. Quanta storia viene taciuta, negata o travisata a tal punto da irritare chiunque abbia un minimo di nozioni storiografiche di quei luoghi.

Per questo tanti cineasti, ma oserei dire artisti in genere, provenienti da quei posti sentono l'urgenza di parlare di codeste cose, ma si trovano di fronte lo scoglio del registro da adottare per diverse ragioni. L'amor della verità, la distanza dello sguardo e non ultimo il rispetto delle vittime sono da tenere in conto. Per esempio quest'anno ho fatto riflessioni simili dopo la visione di Post Mortem, il bel film del cileno Pablo Larraín che è stato a Venezia e stranamente1 non ha vinto al posto di un qualsiasi film della Coppola. Come può un Cileno rapportarsi con un evento come quello disgraziato di quell'undici settembre2 del 1973 in cui fu destituito con brutale assassinio il presidente Allende? Ebbene Larraín ha scelto la freddezza di una rappresentazione asciutta e asettica, si avverte per tutta la pellicola la sua stessa tensione, che sfocia quasi in paura e lambisce la commozione nel momento più duro del film: l'autopsia del presidentissimo. Questo è quanto serve per provocare empatia nello spettatore, un film per quanto imperfetto finisce per essere dolorosamente necessario e trova la sua ragione di essere. Per estensione si potrebbe anche dire che è un film che fa della sua debolezza di fronte al fatto storico compiuto la sua stessa forza.


Con questo non voglio dire che questo film di Carrera è minimamente accostabile a quello di Larrain, ma mi sembra giusto chiamare in causa il cileno come controesempio proprio perché tutto questo garbo e questa volontà di trasmettere empatia finiscono per essere assenti nel film messicano. I fatti reali da cui prende spunto El traspatio sono di gran lunga diversi dalla vicenda cilena, ma sono potenzialmente una fonte filmica incredibile, una vicenda che appunto preme per essere narrata e potrebbe dar vita ad uno di quei film definitivi sul dolore di un popolo e sulla barbarie umana. Quindi anche se si tratta di film diversi che adottano registri diversi, usano stili diversi e vogliono approdare su lidi diversi, penso sia meglio partire dalla comune difficoltà di rappresentazione e di narrazione per poterne parlare adeguatamente.


Il Messico è  posto dove la morte aleggia con grande facilità, dove c'è una guerra, quella tra narcotrafficanti che è costata 9600 vite nel 2009 e quest'anno ha già sfondato la soglia dei 10000.  Ciudad Juárez è una delle città più popolose, posta nello stato di Chiuaua sul confine con gli USA, per la precisione con El Paso. Carrera sottolinea la cosa con una bella panoramica durante i titoli di testa che va da un estremo all'altro, dal Messico agli Usa e il titolo originale El traspatio, come quello internazionale The Backyard, sottolineano la natura di Juárez come cortile posteriore di El Paso. E' in questo quadro di morte e desolazione che l'abisso più profondo è raggiunto dagli omicidi di donne, non narcos quindi, ma semplici lavoratrici delle maquilladoras ovvero le fabbriche dei gringos che sfruttano il lavoro sottopagato al di là del confine. Sono sicuro che vi siano statistiche più dettagliate e precise di quelle di wikipedia che parla di circa 5000 vittime donna dal 1993 ad oggi, ma è un situazione talmente caotica che è estremamente difficile orientarsi all'interno della tragedia.


Le statistiche sono un dettaglio freddo, ma importante per capire la profondità dell'abisso. Non è un caso che una dei migliori parti artistici che ha sdoganato presso l'opinione pubblica il problema Juárez sia un ottimo videoclip degli At the Drive-In, dove i numeri contano molto e la band rinuncia a farsi vedere con gli strumenti o ad accennare minimamente una qualsiasi coreografia per la loro canzone, proprio per non rovinare il senso del video o inficiarne il messaggio informativo. Sarebbe bello poter dire lo stesso di questo film che, sebbene ci inondi di statistiche sui titoli di coda dandoci conto di misoginia e crimini verso le donne nel Messico, ma anche nel mondo intero globalizzando il messaggio, finisce per drammatizzare troppo le avventure della poliziotta protagonista. Eppure ci sono tante cose buone nel film, a partire dall'ottima resa visiva che affronta adeguatamente gli snodi narrativi di una sceneggiatura che, sebbene ottima in più di un punto, finisce inevitabilmente per perdere un po' di pezzi per strada. Il problema è forse nell'eccessiva scrittura dell'insieme narrativo, là dove invece si sarebbe potuto lasciar fare un po' all'istinto su una vicenda dove l'aspetto emotivo conta assai.


Ad esempio ho apprezzato molto quando la volontaria per i diritti delle donne dice al telefono con una giornalista scettica sull'interesse dei lettori per gli omicidi:
"Potresti fare la prima pagina su come gli assassini di donne nel nostro paese non facciano più notizia"
Questo che trovo uno dei passaggi meglio riusciti della sceneggiatura è un po' il nocciolo della questione che dà il polso della situazione e sembra il giusto tributo alla presa di coscienza3 delle donne della tragedia che le stava investendo in quegli anni: l'omicidio visto come normalità quotidiana in un qualsiasi paese del mondo non può e non deve essere accettato in alcuna maniera. Non conosco bene le ragioni della popolarità estrema della sceneggiatrice Sabina Berman in Messico, che mi risulta scrittrice di molte commedie di successo nonché produttrice di questo film, ma indubbiamente si tratta di un'alta professionista del settore. Il suo lavoro di ricerca è certamente notevole, poiché nelle due ore di film nulla viene trascurato e vengono seguite tutte le piste per dirla in gergo poliziesco. La frase è in tema perché la pellicola finisce inevitabilmente per assomigliare ad un poliziesco, proprio per non lasciarsi dietro alcuna ombra, affronta ogni oscurità della faccenda proponendo tutte le varie interpretazioni date al femminicidio. Dall'ipotesi del serial killer, a quella della tratta degli esseri umani fino al deflagrare dell'ipotesi più plausibile della terra di nessuno in cui tutti sono liberi di fare quel che vogliono fare. Il ritratto finale di Juárez è effettivamente quello di una città senza legge dove tutti i malati di mente e i criminali del mondo possono andare e commettere qualsiasi orrore rimanendo impuniti.


L'autrice bisogna dire che è anche chiara da questo punto di vista. Accusa il Neoliberismo e le multinazionali che vanno a lucrare in Messico sul costo del lavoro bassissimo e le rende complici di questo brutale circolo vizioso. Accusa le autorità del posto di essere corrotte e presente la cosa come un ciclo continuo di male e avidità che si rigenerano continuamente di generazione in generazione4. Ebbene tutto ciò è positivo, sia chiaro, ma si ritorna sul problema del linguaggio di rappresentazione di cui parlavo al principio del post. Purtroppo la sceneggiatrice pur mostrando tutta la buona volontà del mondo commette l'errore di fare troppo perno sui suoi personaggi. La protagonista interpretata da Ana de la Reguera è una eroina e ce lo dice il nome sin troppo didascalico che accosta il candido tono bianco (Blanca) al coraggio (Bravo). Dall'inizio alla fine del film la vediamo divincolarsi nelle difficoltà, crescere, evolvere e persino arrivare ad un confronto finale con l'oscurità. Insomma vediamo accadere proprio tutto quello che è scritto nel manuale del perfetto sceneggiatore di Hollywood, solo che questo non è Il Silenzio degli Innocenti ma un film ispirato a fatti reali5.


Mi sembra molto mirata ed equilibrata al riguardo la lunga riflessione di Marylin Ferdinand sul film. Giustamente si riflette su quanto questo determinare una figura eroica in un film sulle vittime sia un "passo indietro" del femminismo in concezione moderna ed infici il risultato finale di un altrimenti ottimo film, ma non mi dilungo che non adoro ripetere cose già dette mirabilmente da altre persone. Oltre tutto il buon Carrera gira veramente bene ed è in forma strepitosa nel tradurre il tutto in immagini con la giusta ed equilibrata dose di violenza scenica che risulta perfettamente funzionale alla storia. Ci si potrebbe anche chiedere allora se qualche autore diverso avrebbe potuto far di meglio, ma tutto ciò è destinato a rimanere nel campo delle ipotesi fantasiose. Alla fine rimane un bel film, che poteva certamente essere migliore: doloroso, necessario, ma siamo ancora in attesa del capolavoro.


Almeno per quanto criticabile è una fortuna che lo script della Berman non presenti vampiri o fantastici intrecci spionistici6. Consola il fatto che si sarebbe potuto far di peggio. Da questo punto di vista faccio anche finta di non sapere che esista un film Hollywoodiano diretto da Gregory Nava, con Jennifer Lopez e Antonio Banderas. Alla luce di questa cosa si potrebbe forse perdonare quella chiusa finale, molto discutibile e che cerco di non raccontare per chi volesse mai vedere il film, in cui si fronteggiano Ana de la Reguera e Jimmy Smits, che fa l'imprenditore cattivo. Smits che è volto noto anche dalle nostre parti per la sua consistente parte in diverse serie di Law & Order è un tremendo autogol della produzione, che praticamente svela le carte in tavola e lascia la sensazione di aver visto una bella puntata del serial americano che guarda caso si occupa spesso di reati a sfondo sessuale. Insomma non si sa bene che dire, forse è un buon film prodotto da una major o forse è un film sbagliato fatto da gente volenterosa, ma l'aspetto promozionale spinto del sito web mi fa onestamente propendere per la prima ipotesi. Certo è che del travaglio e del dolore necessario per la resa di certi fatti rimane un po' poco. Decisamente troppo poco per le ragazze innocenti di Juárez.

Scheda tecnica
El traspatio
Anno : 1985
Regia : Carlos Carrera
Soggetto e Sceneggiatura : Sabina Berman
Cast :
Ana de la Reguera - Blanca Bravo
Asur Zagada
Marco Pérez - Fierro
Joaquín Cosio - Peralta
Alejandro Calva - Comandante
Jimmy Smits - Mickey Santos
Carolina Politi - Sara
Amorita Rasgado - Márgara
Enoc Leaño - Gobernador
Adriana Paz - Hilda
Lisa Owen - Silvia
Sayed Badreya - El Sultán
Juan Carlos Barreto - Alvarez
Paloma Arredondo - Elvia
Odette Berumen - Paula
1. C'è dell'ironia nell'aria se non si fosse capito.
2. Lascio notare come questo altro undici settembre di terrore non sia diventato una data monolite da ricordare al di fuori del paese in cui è accaduto sperando che susciti qualche riflessione.
3. Ci sarebbe da citare tutto il movimento di donne che cercano di opporsi e di ottenere giustizia per tutta questa barbarie. Purtroppo non ho il tempo di dilungarmi, ma segnalo almeno l'associazione più importante dal bellissimo e malinconico nome: Nuestra Hijas de Regreso a Casa (Le nostre figlie di ritorno a casa). Se aveste interesse e voglia lì si trovano i collegamenti a tutte le risorse, compreso l'elenco di tutta la documentaristica (libri e video) al riguardo che evito di fare io. Dovrebbe anche essere loro l'iniziativa, se non vado errato, delle simboliche croci rosa installate là dove vi fu il ritrovamento più numeroso ed importante di vittime, momento talmente grave e drammatico da essere ripreso anche nel film.
4. Va dato atto alla Berman la sua esplicita chiarezza che evita ogni giro di parole e va dritta al punto anche nelle interviste:
" Dapprima avevo pensato di raccontare i fatti relativi agli assassinii delle donne. Allora mi dissi: 'Quello è già stato fatto in alcuni documentari e libri'. Quindi mi resi conto che quel che volevo raccontare, al di là dei fatti, era ciò che ruotava attorno alle uccisioni. Una società multiculturale il cui fatalismo deborda nell'indifferenza. Uno stato che fallisce nei suoi doveri più elementari. Una economia neoliberale e globalizzata. E la vicinanza col paese più ricco del pianeta, gli Stati Uniti"
5. Un altro confronto sul linguaggio di rappresentazione del reale si potrebbe fare con un altro grande film ispirato a fatti reali come Memories of Murder. Anche lì vi sono i delitti di un omicida seriale koreano realmente esistito e rimasti impuniti che vengono usati come sfondo, i protagonisti girano in tondo, seguono le tracce, vivono micro-drammi, ma non vi è alcuna logica della caccia all'assassino che deve raggiungere il suo climax. Anzi l'unico momento che può essere assunto a tale è solo un riflesso dell'emotività di uno dei protagonisti. In tale maniera viene preservato l'aspetto doloroso, insoluto e vivo della storia.
6. Mi si perdoni l'ironia, ma proprio mentre cerco di affrontare il discorso sul registro da adottare nella rappresentazione di orrori reali storici mi imbatto in queste opere di fiction. Lungi da me cercare di interpretare le intenzioni degli autori di questi libri, magari nel primo caso il vampirismo è una sottile metafora per un raffinatissimo sottotesto. Nella sinossi sul sito della casa editrice però leggo:
Ciudad Juarez, citta' messicana di confine che conta piu' di un milione di abitanti, e' da anni devastata dalla guerra tra i cartelli della droga per il controllo del traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. Dal 1993, Juarez e' altresi' tristemente famosa a causa degli innumerevoli omicidi perpetrati ai danni di giovani donne, generalmente di umile estrazione sociale. A oggi si contano oltre 5000 assassinii, tra cadaveri rinvenuti nel deserto e ragazze scomparse e mai più ritrovate. Le vittime sono quasi tutte di eta' compresa tra i 10 e i 40 anni, e subiscono sempre lo stesso trattamento: rapite mentre vanno al lavoro oppure sulla strada del ritorno a casa, vengono violentate, torturate, mutilate e uccise.
E' proprio in questo crogiuolo di corruzione, violenza e morte che, nel mezzo di un viaggio da Miami a Los Angeles, finisce casualmente David, eccentrico freelance di una rivista inglese che si propone di 'esaminare razionalmente i fenomeni irrazionali'. Una tigre siberiana bianca gli aprira' la strada verso un mondo di tenebra, dove l’orrore e' ancora più terrificante di quello offerto quotidianamente dalla cronaca…
Mi sembra esemplare di come non vorrei fosse una opera di finzione su queste cose. Un primo capoverso (di 117 battute) inquadra storicamente la cronaca, mentre il secondo (appena 64 battute) butta là l'epifania di una tigre siberiana nelle sabbie del deserto che dovrebbe deviarla subito sul lato mistico-esoterico che dovrebbe interessare l'amante di quel settore letterario. Quindi a cosa serve la tragedia di Juárez in questo caso? Spero che il testo smentisca l'impressione che sia un facile salottino in cui sviluppare una storia generica x di vampiri, magie e robe varie. Onestamente non ho voglia di indagare per poter dare certezza alle mie riserve e sono sicuro che ci sarà in giro qualche carampana di questo autore che verrà a difendere il suo operato e mi spiegherà perché sono in errore. Debbo ammettere che per ora la cosa non mi sembra tanto lontana dalla morbosità dei nostri talk show in cui viene creato uno sfondo lercio per poter far discettare uomini e donne di spettacolo su argomenti che non li tangeranno mai.

domenica, novembre 28, 2010

Kjærlighetens Kjøtere | L'amore ibernato

Non avevo mai parlato di cinema scandinavo e la cosa è alquanto strana visto il mio amore per quelle terre e per quelle genti e per questo faccio una piccola deviazione per la Norvegia. Ammetto anche che debbo un po' forzarmi per scrivere qualcosa su questo film, perché si tratta di uno di quegli oggetti che lascia tante riflessioni che però vanno classificate come intime. Insomma cosa c'è di meglio di tre omaccioni bruti che si ritrovano segregati in Groenlandia a discutere dei massimi sistemi della sfera affettiva per chiudersi definitivamente in un monolitico silenzio a pensare a sé stessi. Certo messa così fa ridere alquanto, ma il film di Hans Petter Moland è tagliente, freddo e lucido nell'analisi delle contraddizioni umane quanto le lastre di ghiaccio che circondano i tre protagonisti.

A pensarci bene la cosa tradisce subito la radice letteraria dell'operazione e c'è probabilmente molto di autobiografico nella vicenda che porta il poeta Henrik Larsen (Gard B. Eidsvold) ad accettare un lavoro da trapper1 in Groenlandia per ritrovare l'ispirazione perduta. La storia prende le mosse da Larsen (1929),  libro del danese Peter Tutein, curiosa e misteriosa figura di scrittore vissuto ad inizi novecento e morto giovanissimo (47 anni) e che visse realmente in Groenlandia come i protagonisti del film. Autore anche di un seguito Larsen vender hjem e attivo anche nel cinema con soggetto e sceneggiatura di un film danese del 1939 ambientato sempre tra i ghiacci eterni dal titolo Nordhavets mænd (Gli uomini del mare del nord). Dal poco che trovo sulla rete credo si tratti di un film per famiglie e quindi ha ben poco a vedere con Kjærlighetens kjøtere che è invece un film assolutamente lontano dall'essere conciliante.


E' curioso notare come certi film riescano a scomparire dalla faccia della terra. Eppure Kjærlighetens kjøtere non si può inserire nella vastità dei film che han goduto di poca distribuzione, poiché quantomeno è circolato in video sin dai tempi delle VHS col titolo Zero kelvin con il quale è certamente più semplice trovarne informazioni. Oltre tutto il suo regista non è questo totale sconosciuto vista comunque la sua discreta prolificità ed il sostanzioso budget di molte sue produzioni. Anche il suo sodalizio col grandissimo attore svedese Stellan Skarsgård, presente in ben tre film da lui diretti, basterebbe a dargli imperitura gloria. Al contrario sembra una perla da scoprire nella grande (pen)isola felice del cinema scandinavo: un dramma ispirato e alto ambientato nel freddo eterno nei primi anni dello scorso secolo2.


L'intimità maschile è il vero regno del film, non che sia una novità interrogarsi sul punto estremo al quale si può mai arrivare per amore, ma oggetti così eleganti secchi e asciutti sull'argomento è raro trovarne. Nel caso in oggetto poi si tratta di merce preziosa che si fregia di un'ottima scrittura ed una magniloquente realizzazione. Nulla come i ghiacci eterni del nord poteva rendere meglio come ambientazione, il teatro perfetto dove lasciar andare il pensiero, estendere la mente e cercare delle risposte alle proprie ansie. Da quando il giovane scrittore in cerca di ispirazione Larsen (Gard B. Eisvold)  sbarca in Groenlandia si capisce subito dai volti dei suoi due futuri compagni di caccia che il ghiaccio mette a dura prova le menti di chi vi abita. Non sono solo le evidente ferite fatte dal gelo sui loro volti a tradire la cosa, ma è tutta la gestualità nella caratterizzazione del silente scienziato Holm (Bjorn Sundquist) e del grezzissimo e cialtrone Randbæk (Stellan Skarsgård). L'ambiente e l'isolamento, dato che i cacciatori ad inizio Novecento vedevano altri esseri umani solo quando venivano a raccogliere la merce, li ha evidentemente forgiati, mentre il giovane Larsen è materia da plasmare.  Moland è bravo a far intuire subito come la storia ruoterà attorno al mutamento e al cambiamento di un giovane confuso.


Il clima che si instaura tra i tre è pesantissimo. E' proprio il buon Stellan ad essere il motore attorno al quale ruota tutto il film. L'ammissione è implicita anche nell'intervista al regista che confessa di aver dovuto mediare per avere vicino a questa grande presenza attoriale l'altra leggenda del cinema nordico Sundquist. E' proprio quando si trovano a confronto grandi interpreti che gli attori danno spesso il meglio di sé. L'interpretazione di Sundquist dello scienziato è infatti ottima, dotata di discrezione e funzionalità nei confronti della storia. Il personaggio stesso si tiene in buon ordine all'esterno nella dualità rappresentata da Larsen e Randbæk ed è proprio nel momento della sua assenza che si incrina totalmente l'equilibrio tra il vecchio cacciatore e il giovane scrittore come facilmente prevedibile sin dalle prime battute.


La rappresentazione a mo' di orco di Randbæk resa dal bravo attore svedese è di fatto notevole e raggiunge toni devianti e stranianti quando nel cercare di riconciliarsi con Larsen organizza una grottesca festa di Natale. Imbracato in una casacca cinese di seta rossa lo scopriamo viaggiatore verso l'oriente, dotato di facoltà divinatorie e visionario. A questo punto ci sarebbe da aprire una piccola parentesi sull'istinto da esploratori dell'antico popolo scandinavo, ma cerco di non dilungarmi citando di passaggio il fatto che sia costume proprio di quei luoghi partire in solitaria per l'altro capo del mondo così come vivere in totale isolamento per propria scelta. La cosa è dimostrata dalla loro ampia storia al riguardo che trova il picco nei racconti epici di esplorazione tipici di quelle terre, saghe miste di storia e mito come la Grœnlendinga saga, la Eiríks saga rauða e Vinland Sagas e nella glorificazione di viaggiatori eroici come Erik Thorvaldsson (Enrico il rosso) o  Leif Ericson. Questo per dire insomma quanto il viaggio, le condizioni estreme e l'eremitaggio siano vero e proprio humus per quelle genti dove, come vuol anche dimostrare il film, la misantropia e finanche la misoginia possono elevarsi a potenza infinita.


Non svelo nulla delle ragioni che hanno reso Randbæk sterile e cattivo, sempre pronto a vessare il giovane e a dirgli nella più rozza delle maniere quanto sia sbagliato amare una donna lontana un mare di distanza da lui ed inutile leggere la sua lettera d'addio che gli parla di una improbabile attesa. Lo scrittore intravede in Randbæk l'abisso oscuro dei suo stessi dubbi, della sua fragilità come maschio, il vivido rancore che potrebbe arrivare a provare un uomo tradito e la totale devastazione che può provocare la fine di un rapporto. La continua progressione della tensione tra i due sfocia nell'inevitabile disperato climax tra le nevi tutto virato in un blu crepuscolare e somma lode a Moland per aver reso in pellicola queste immagini. Non svelo neanche il finale, ma vorrei almeno citare il pianto di Larsen a giochi fatti e finiti, chiaro segno di resa verso Randbæk. Quel che voleva evitare fino alla fine diviene realtà, la sostituzione tra il perseguitato e il persecutore, tra il buono e il cattivo, tra l'eroe e il mostro da sconfiggere è conclamata. Il senso di inevitabilità reso è forte come un pugno allo stomaco e forse dovremmo piangere tutti per quanto possa essere misera la natura umana.

Scheda tecnica
Kjærlighetens kjøtere
Anno : 1995
Regia : Hans Petter Moland
Soggetto : Peter Tutein
Sceneggiatura: Lars Bill Lundholm & Hans Petter Moland
Cast :
Stellan Skarsgård -Randbæk
Gard B. Eidsvold - Henrik Larsen
Bjørn Sundquist - Jakob Holm
Camilla Martens - Gertrude
Paul-Ottar Haga - Ufficiale
Johannes Joner - Uomo della compagnia
Erik Øksnes - Capitano
Lars Andreas Larssen - Giudice
Juni Dahr
Johan Rabaeus
Frank Iversen
Tinkas Qorfiq - Jane

1. I trapper ovvero i cacciatori di pelli sono il centro del film. Per questo mi sento di sconsigliarlo a chiunque sia particolarmente sensibile ad immagini di animali morti.
2. Probabilmente l'adattamento è molto fedele al romanzo. I costumi che si vedono nelle poche scene non ambientate in Groenlandia sono per l'appunto di quel periodo e in un giornale uno dei protagonisti apprende degli ultimi giorni di vita di Lenin. In realtà il film non è stato girato nella grande isola danese del Mar del Nord, ma nella più piccola, anche se non meno fredda, Svalbard che è propriamente norvegese come il film.

sabato, novembre 13, 2010

La Maldición De La Llorona | Gli occhi cavi della strega

Qualche tempo fa avevo introdotto la figura della Llorona cercando di capire il ritorno continuo di questo spettro di donna ad infestare in varie incarnazioni tutta la cultura messicana tra libri, cinema e musica. Il sincretismo tra il puro fascino esercitato dal suo aspetto di donna avvenente e il suo utilizzo ad intenti moralistici nel folklore urbano ha fatto sì che la storia si sia diffusa in tutto il cono sudamericano e presenti caratteri simili ad altre leggende del globo. In realtà come ho cercato di evidenziare in più riprese la declinazione Messicana di questo archetipo è stata fortemente influenzata dalla storia coloniale e finanche dalla politica. Questo dettaglio non è trascurabile nemmeno quando si va a vedere un film come La Maldición De La Llorona. Sebbene la pellicola non abbia alcun intento politico, storico o simbolico e voglia semplicemente ricalcare gli stilemi del coevo cinema gotico europeo è singolare notare come i fattori citati abbiano infiltrato la congruenza con la verità. Quello che mi interessa come al solito non è fare una sterile critica del film, ma capirlo e arrivare al nocciolo della questione. Così come ad uno sprovveduto possa la leggenda stessa sembrare un rimescolamento di vecchie credenze sparse per il mondo oppure il concretizzarsi in narrazione di paure innate dell'uomo, per molti questa pellicola viene bollata come adattamento al suolo centroamericano di relative controparti europee. Ovviamente questa semplicistica interpretazione non mi sta affatto bene e per questo cercherò di scavare su un'opera non certamente imprescindibile, ma godibile ed a tutti gli effetti facente parte della storia cinematografica di quel paese.


Il film uscito anche sul mercato americano in un dvd ormai introvabile, per conto della mai troppo celebrata etichetta Casanegra col titolo di The Curse of the Crying Woman, nasce come vero e proprio tentativo di gotico sudamericano. Sebbene gli estimatori dell'horror messicano diano giusto risalto al carattere di unicità e al percorso culturale ben scisso dalla restante parte del globo degli autori locali, non si può negare che questo film sia in debito di qualche spunto con molto cinema coevo europeo. Non si tratta infatti dell'esempio più calzante della singolarità rappresentata dal cinema horror messicano, poiché mostra diversi punti di sovrapposizione con un classico del gotico nostrano. La rappresentazione della Llorona con cani al seguito, nero vestita che si aggira tra le nebbie, non può infatti essere casuale, così come la generale atmosfera fatta di nebbie e carrozze che sfrecciano nella notte sono abbastanza insolite per il cinema sudamericano.


Il riferimento diretto è con La Maschera del Demonio (1960), il classico diretto da Mario Bava, che più passa il tempo più si scopre quanto fu influente nelle cinematografie dell'orrore di tutti i paesi in cui fu distribuito. Singolare è anche il cortocircuito per il quale il sottoscritto se ne ritrova sempre a parlare visto che si ispira alla novella di Gogol di cui ho ampiamente parlato in più riprese su questo blog. Anche per questo motivo ho ritenuto giusto vederlo per intero, visto che la mia memoria lo aveva ormai seppellito talmente tanto in fondo da farmi sorgete il dubbio che non lo avessi mai visto. Ebbene alcuni tratti distintivi sono stati mutuati in maniera palese, a partire dal già citato look da dama in nero della Llorona (Rita Macedo), che è lo stesso di Barbara Steele nella pellicola di Bava, nonché dagli alani tenuti al guinzaglio da entrambi le attrici nella loro prima inquadratura. A questo si aggiunge anche il particolare, che mi aveva molto colpito nel film messicano, degli occhi cavi dello spettro. Questo dettaglio è presente in maniera significativa anche nella Maldición ed era probabilmente immagine1 di tale potenza da colpire anche il regista Messicano.


Il regista Rafael Baledón ha quindi prelevato alcuni elementi di un'altra cinematografia e ha cercato di declinarli secondo la proprio cultura. Questo processo di regionalizzazione del prodotto è più comune di quanto si pensi nella storia del cinema e nasce spesso proprio per supplire alle carenze del prodotto esportato nell'attecchire sul pubblico locale. E' chiaro che la Llorona che i messicani conoscono sin da bambini avrebbe certamente riscosso più successo in quei luoghi rispetto ad una strega della steppa russa diretta da un Italiano. Sarebbe anche ingiusto paragonare i due film, visto che il maestro nostrano è difficilmente eguagliabile a livello tecnico. I suoi proverbiali movimenti di macchina e i suoi ben noti esperimenti visivi in fotografia sono ormai bagaglio di tutto il cinema mondiale ed erano talmente all'avanguardia, che come noto la sua maestria fu riconosciuta con vergognoso ritardo dalle nostre parti. Sarebbe quindi ingiusto pretendere la luna dal pur bravo Baledón. Dotato di regia molto scolastica, ci regala infatti un film che è squisitamente vicino ai classici inglesi della Hammer pictures per teatralità dell'inquadratura e sfruttamento degli interni.


Ci si potrebbe chiedere allora cosa c'è di così messicano in questo che viene considerato a tutti gli effetti uno dei migliori classici del genere gotico. La risposta non è certo nella trama lineare che riguarda una maledizione di famiglia, comune a tante altre storie gotiche, con cui la povera Amalia (Rosita Arenas) deve fare i conti, ma è prima di tutto nella presenza stessa della Llorona. Come detto precedentemente non si può ignorare la storia della figura, perché in questo film il fantasma viene tranquillamente fuso con la figura della Malinche. Nel didascalico racconto che fa la posseduta zia Selma (Rita Macedo) viene mostrato il ritratto di una donna chiaramente Azteca ed appellata per l'appunto Doña Marina. Sintomatiche della visione tipica degli anni sessanta sono le parole pronunciate dalla Macedo:
“Era spaventosa perché desiderava il potere. Tutto sacrificò per conseguirlo. Disprezzò persino l’amore.”
Sono del tutto in linea col misto di fascinazione ed odio per una madre snaturata e sarebbe difficile comprendere cosa si voglia intendere, se non si fosse al corrente della storia. Si può quindi rinunciare alle fattezze estetiche tradizionali di spettro vestito di bianco, ma non alla sua natura più intima che è viva nell'educazione di ogni centroamericano. Non si può scindere la tragica storia dalla creatura, per quanto si possa mai insistere su caratteri estranei, non ultimo il tentativo di riportarla in vita con modalità analoghe di quelle della strega de La Maschera del Demonio, ovvero sottraendo la vita a giovani donne per una nuova reincarnazione.


Il film è poi tipicamente messicano anche nel fare un frullato speciale di tutto il cinema e la psychotronia a disposizione in quegli anni. Si buttino dentro al deserto messicano una villa gotica, ipnotismo fatto con bamboline Voodoo, un servo zoppo con la faccia sfigurata, interpretato dal grande Carlos López Moctezuma attore feticcio per i ruoli da cattivo, e non ultimo un mostro in soffitta dal meraviglioso trucco. All'appello manca solo qualche wrestler, ma ovviamente avrebbe inficiato la riuscita della pellicola e non si dica che i registi di questi film non fossero coscienti del fattore pop e ironico della loro presenza nelle pellicole. Tra gli interpreti sento di dover citare il bambacione Abel Salazar, abbonato a ruoli orrorifici in quegli anni e sul quale certamente tornerò, che interpreta il marito di Rosita Arenas, nonché in un breve ruolo Julissa nota popstar messicana ed apprezzata interprete di telenovelas, come per esempio una delle prime riduzioni di quel Cuore Selvaggio (Corazón salvaje), che impazzò nella versione degli anni 80 anche da noi.




Scheda tecnica
La maldición de la Llorona
Anno : 1963
Regia : Rafael Baledón
Sceneggiatura: Rafael Baledón, Fernando Galiana
Cast :
Rosa Arenas - Amelia
Abel Salazar - Jaime
Rita Macedo - Selma
Carlos López Moctezuma - Juan
Enrique Lucero - Dr. Daniel Jaramillo
Julissa - Passeggero femminile della carrozza (con il nome Julissa del Llano)
Roy Fletcher
Arturo Corona
Armando Acosta - Altro passeggero
Victorio Blanco 
Beatriz Bustamante - Strega


1. In realtà l'occhio cavo e la tortura degli occhi in sé sono un po' una ossessione Baviana e la cosa ritorna in tutto l'arco del film: da quando incominciano a riempirsi e pulsare di bianco mentre la strega cerca di ritornare in vita fino a quando per eliminare i vampirizzati è necessario trafiggergli gli occhi. Questi particolari mi colpiscono profondamente dato che nutro una profonda angoscia ogni volta che vengono presi di mira gli occhi nei film di paura. A seguire due catture dal film italiano, uscito anche in sudamerica con titolo La máscara del demonio, che dovrebbero dissipare ogni dubbio circa la presa in prestito di alcune idee nella pellicola messicana.



2. Al riguardo ho trovato alcune significative copertine realizzate dal grandissimo José Guadalupe Posada di una serie di libri di storia messicana per ragazzi scritti da Heriberto Frias. Di seguito ve ne sono un paio dedicati alla figura chiave della Malinche, ma anche un altro su un evento classico della storia del colonialismo ovvero la caduta e distruzione di Tenochtitlán (capitale dell'impero azteco) da parte degli invasori spagnoli, che fu preannunciata dalla comparsa di una donna vestita di bianco secondo i commentari dell'epoca,  che urlava disperata alla ricerca dei propri figli esattamente come la Llorona. Questo per sottolineare come la storiografia e la volontà politica del Messico nazione furono molto forti nel delineare la cultura a venire.



sabato, ottobre 23, 2010

Va' e vedi | I rottami dell'apocalisse

Certe volte ti senti inadeguato a parlare di certi film per diversi motivi. Può accadere che il film sia talmente stordente a livello visivo, quanto può accadere che lambisca quegli angoli oscuri di un senso che non pensavamo di possedere1. Questo è quello che si prova quando si arriva alla fine di un film come Va' e vedi: lo stomaco si annoda, tutto le parole si fermano nella gola senza possibilità di uscire e i tuoi occhi non possono che rimanere aperti sulla realtà. La sensazione penetra talmente tanti strati che risulta difficile anche capire i sintomi che determinano la malattia. Sei frastornato e non puoi negarlo e se vuoi negarlo allora il problema è tutto tuo, perché a quel punto vi sono due sole possibilità, forse non capisci o forse sei in malafede. Legittimamente ci si dovrebbe chiedere come si possa essere in malafede quando si tratta di guerra, ma preferirei lasciare alla riflessione di chi legge la risposta, che spesso è più semplice di quella comunemente data.

Sul film del 1985 c'è poco da dire che non sia già stato detto da persone decisamente più competenti di me. Si trova abbastanza facilmente nell'ottima edizione dvd a doppio disco Inglese ed è talvolta celebrato da chi ha masticato il buon cinema russo. Beneficiò anche di un adattamento italiano e credo si sia visto in notturna televisiva grazie a Enrico Ghezzi e Fuori Orario. Incomprensibile capire perché sia stato mutato nell'adattamento italiano il senso del titolo che è originariamente Idi i Smotri (Иди и смотри) ovvero Vieni e vedi; titolo di origine biblica che fa esplicito accenno ad alcuni versi dell'Apocalisse di San Giovanni e che dichiara programmaticamente la portata e l'ampiezza di ciò che si sta per andare a vedere. Effettivamente il film è quanto di più vicino si possa immaginare come manifestazione terrena dell'apocalisse, facilmente estensibile a tutte le altre simili apocalissi verificatesi nel mondo, nello spazio e nel tempo. Tutto come fosse solo un caso che quella dipinta nel film si sia verificata in Bielorussia al tempo della seconda guerra mondiale. Come se il giovane Florya (Aleksei Kravchenko) volontario nella resistenza russa all'occupazione tedesca sia solo incidentalmente sotto l'occhio della telecamera per tutta la sua odissea. Come se Glasha, la bella fanciulla interpretata da Olga Mironova, il comandante dei soldati o il paese in cui finisce alla ricerca di cibo siano solo variabili casuali nella sua discesa all'inferno. L'inevitabilità è fattore connaturato e immutabile legato a qualsiasi guerra probabilmente.


Non si sa nemmeno bene da dove partire, perché non è compito facile riuscire a mantenere la giusta distanza in certi casi. Si potrebbe per esempio iniziare a monte della questione. Si potrebbe notare come esistano sempre due diversi tipi di cinema di guerra prima di tutto; esiste un cinema di guerra fatto dagli invasori e un cinema di guerra fatto dagli invasi, ma esiste anche un cinema di guerra fatto dai vincenti ed esiste un cinema di guerra fatto dagli sconfitti e si potrebbe anche andare avanti per un po' con queste rappresentazioni antitetiche. Qualcuno potrebbe obiettare che sono schematiche, ma si potrebbe chiedere delle doverose spiegazioni su varie cose. A cominciare dal fatto che Va' e vedi sia un film poco celebrato, poco visto e conseguentemente poco discusso a differenza di altri.


Conoscono tutti quel capolavoro di Apocalypse now, ma anche tanti suoi epigoni. Si conoscono tanti esempi di cinema dove la guerra è uno stato alterato della mente, dove la follia collettiva viene anche resa vividamente, ma soprattutto esiste l'abitudine a confrontarsi esclusivamente con un modello fatto di eroi, antieroi e figure ben delineate. Si tratta di singoli individui che si muovono nello sfacelo della guerra, ma sembra sensato chiedersi se sia davvero questa l'unica prospettiva possibile. Senza alcuna polemica su vittoriosi - vinti, su quale cinema sia migliore,  sarebbe giusto le persone si interrogassero su quali siano gli altri punti di vista. E' giusto notare come sia legittimo, se esistono capolavori fatti dalla prospettiva dell'invasore\vittorioso, aspettarsi l'esistenza di qualcosa di notevole dall'altra parte dello steccato. Ebbene la caratteristica più importante di Va' e vedi è proprio la sua coralità, sta al cinema di guerra degli invasori\vittoriosi, che si annoda tipicamente attorno ai singoli, nelle stesse modalità con cui Albert Camus poneva La Peste come l'altra faccia de L'Étranger. Si trattava di un romanzo corale senza l'individuo al centro, bensì un'intera comunità che faceva da corpo narrante e quindi esattamente all'opposto del suo precedente capolavoro dell'esistenzialismo francese. L'accostamento è certamente estremo, ma quel che si vuole far passare è proprio il carattere di film plurale cui ci si trova di fronte: una pellicola sul dolore collettivo di una nazione, un film sulla memoria ed un monito politico sul futuro.


Sbaglia probabilmente chi lo ritiene un film pacifista, perché quantomeno non lo si può ritenere tale nei termini in cui viene tipicamente concepito qui ad occidente. Si faccia infatti caso a quante pellicole finiscano per trovare rifugio nel pietismo per arrivare al pacifismo, mentre Klimov pensa prevalentemente a battersi ferocemente contro l'idea che avvelenò l'Europa in quegli anni, quell'idea genocida che si portò dietro tante, troppe vittime. Doveva intitolarsi infatti Uccidi Hitler e la cosa è ben esplicitata dal regista stesso nelle interviste2, per cui non si vedono tutte quelle zone d'ombra che sembrano affliggere il recensore medio e c'è da chiedersi se non sia manifestazione del già citato difetto di comprensione verso certo cinema. Uccidere l'individuo è chiaro simbolismo dell'uccidere quell'idea ed il citato finale in cui Florya spara ad un ritratto del tedesco sembra alquanto semplice e lineare. Contano poco le elucubrazioni degli esegeti del cinema: spara Florya mentre scorrono immagini di repertorio montate all'inverso e la storia torna indietro ad ogni suo colpo, spara continuamente, ma si ferma quando davanti ai suoi occhi sbarrati c'è l'immagine del nemico da infante. Non credo bisogni andare alla radice della parola γένος (ghénos razza, stirpe) per rendere ancora più chiara quella sospensione con cui si chiude la scena, quello sguardo sbarrato verso l'orrore da parte del giovane 3.


Mi allontano ancora un po' dalla logica di una recensione, tanto questa non è una recensione e questo non è un blog di recensioni o almeno non voglio che lo sia. Ritorno a quando ero temporaneamente all'estero e capitava a volte che discorressi con un collega Bielorusso. I soliti scambi di battute sulle diverse mentalità, sul cibo, sul bere, sulle ragazze e poi inevitabilmente sui luoghi. A fronte del solito elenco di attrattive dell'Italia chiesi cosa ci fosse da vedere nella capitale Minsk.  La risposta fu che non c'era nulla o quasi da vedere, perché questa stessa guerra del film aveva cancellato buona parte della loro memoria storica e poco era stato ricostruito oltre il duomo della città. A volte la prospettiva si ribalta di colpo. Non amo molto la mia città, teatro di atroci massacri durante la seconda guerra mondiale essendo posta sulla linea Gustav, ma ho sempre stimato la sua storia e il suo carattere cupo.


A volte l'ho chiamata città dei morti, forse anche guidato da una fascinazione un po' troppo romantica, ed ho sempre perdonato e compreso la tristezza endemica, il carattere luttuoso sottolineato dai tre cimiteri monumentali alle vittime della guerra e quell'atmosfera grigia fatta di nebbie e piogge autunnali. Non ci sarebbe da stupirsi che vi fossero fantasmi disperatamente aggrappati ai cittadini di questa città o che facciano perennemente compagnia quando si cammina per queste strade. Nel sapere di Minsk e della Bielorussia in genere viene però da riflettere su molto altro, per esempio su ciò che è stato dimenticato ed eventualmente rimosso. Tutto o quasi tutto è stato ricostruito nel bene o nel male da queste parti, alla rimozione delle macerie è corrisposta rimozione di parte della memoria e si è ripreso a vivere. Per l'appunto è rimasto solo il commovente e romantico ricordo di quel dolore che fu nei racconti di chi l'ha vissuto. Certo il nostro cinema sulla guerra è tanto importante, offre grandi capolavori, è ben diverso, ha le sue ragioni storiche e sociali, ma anche noi siamo degli invasi e in finale degli sconfitti. Dovremmo avere i mezzi per decifrare quello che c'è in questo capolavoro, così come possiamo provarne il vivido dolore anche se abbiamo dimenticato. E' forse parte del carattere di questa nazione e della sua cultura, magari son stati anche il caso e gli accadimenti, comunque han concorso e hanno permesso di ricominciare ed essere più imbecilli di prima. Sembra difficile anche da condannare sotto certi punti di vista, perché se c'è una questione legittima è quella di chiedersi quanto dolore si possa sopportare.


E' possibile ricongiungersi con questo al film perché è proprio ciò sembra chiedersi Klimov: quanto si possa scavare nella sofferenza, quale possa essere il limite estremo dell'orrore, quanto possa mai essere imperfetto l'essere umano. A questo punto dispiace anche un po' perché alla fine si è parlato di tutto, ma ben poco del film stesso che merita assai a livello visivo. In senso tecnico stretto c'è ben poco da dire: è cinema sovietico allo stadio puro, rasenta la perfezione qualsiasi cosa dicano i suo detrattori. Le scelte visive disseminate lungo le oltre due ore di film sono eccezionali. In poche ore Florya passa dal sorriso smagliante del ragazzino che va in guerra col suo giocattolo4 (un fucile trovato nel fango) agli occhi sbarrati che non si chiudono mai sull'orrore. Pare addirittura che il giovane attore venisse ipnotizzato prima delle scene proprio per renderlo ancora più stravolto e disconnesso, così come pare siano stati usati veri proiettili in molte scene e sorge anche il sospetto che il povero bovino ucciso ad un certo punto sia morto sul serio.


Non ha nemmeno senso elencare tutte le trovate visive di Klimov. Piuttosto direi qualcosa sulla struttura del film. Si è già detto come non vi sia un vero protagonista sebbene la camera segua sempre il cammino di Florya tra casa e fronte. Piuttosto lo sguardo del giovane è lo sguardo dello spettatore su quello che sta accadendo. Sono distinguibili due tronconi: uno in cui il giovane si unisce alla resistenza, ma al primo attacco cerca di rientrare a casa senza trovare più nessuno, l'altro in cui per andare a reperire viveri finisce in un villaggio occupato da tedeschi in cui si scatenerà il peggio. Lo "spettacolo" della guerra è disgustosamente reso, senza raggiungere il dettaglio nella rappresentazione, ma utilizzando una meccanica narrativa frutto di un lavoro di scrittura minuzioso. Un vero e proprio manuale di "linguaggio" cinematografico in cui vengono narrate cose senza mostrarle in maniera piatta e volgare5. Il giovane soldato transita sempre più in una dimensione onirica che non è resa in maniera poi tanto distante dai capolavori grafici di altri registi, nonché illustrata elegantemente con l'ausilio di ampi piano sequenza tra alberi e case.


Chiudo qua, perché ribadisco il mio senso di inadeguatezza a parlare di questo film. In fondo era proprio quello che volevo comunicare: l'urto a cui ci si sottopone nel vedere il capolavoro di Klimov. Non mi meraviglia affatto che dopo questa opera il regista non abbia più sentito l'esigenza di girare altro come da lui stesso ammesso. Vi lascio al trailer che restituisce in parte l'atmosfera del film.




Scheda tecnica
Va' e vedi
Anno : 1985
Regia : Elem Klimov
Soggetto : Ales Adamovich
Sceneggiatura: Ales Adamovich & Elem Klimov
Cast :
Aleksey Kravchenko - Florya Gaishun
Olga Mironova - Glasha
Liubomiras Lauciavicius
Vladas Bagdonas
Jüri Lumiste
Viktor Lorents
Kazimir Rabetsky
Yevgeni Tilicheyev
Aleksandr Berda
G. Velts
V. Vasilyev
Igor Gnevashev
Vasili Domrachyov
G. Yelkin


1. Sì, è una citazione dei Joy Division.
2. L'intervista completa sul film è stata messa online  in tre parti (12 e 3) da un benefattore.
3. Precedentemente la cosa è anche esplicitata quando i Russi chiedono ad un Tedesco le ragioni per cui ha ucciso i bambini, ma salvato alcuni adulti. Le sue parole farneticanti riguardano il fatto che con i bambini tutto sarebbe ricominciato, ci sarebbe stata speranza di sopravvivenza della genia russa.
4. Citerei la scena in cui Florya torna a recuperare il suo fucile col manico rotto da una pallottola e da cui si era separato precedentemente. Come fosse un cucciolo ferito lo benda con tanto di garza e lo porta via con sé.
5. Al riguardo mi viene in mente l'esempio di Salvate il soldato Ryan in cui l'effetto trucido e gore la fa da padrone per rendere l'idea dell'orrore della guerra. Avrei tanta voglia di parlare del "linguaggio" di rappresentazione, ma ora non mi sembra il momento giusto.

lunedì, ottobre 18, 2010

Sveto Mesto | L'insensato fascino della superstizione

Non sono molto distante purtroppo dai miei connazionali e ammetto la mia ignoranza su gran parte della cultura Balcanica. Proprio mentre un po' tutti da queste parti sembrano credere che i Serbi siano dei curiosi bruti nero vestiti che guastano il nostro sport nazionale con una protesta incomprensibile, proprio mentre i telegiornali dimenticano di menzionare che abbiamo contribuito in maniera significativa1 a martoriare quel popolo tra il 1996 e il 1999 con le nostre bombe amiche, proprio mentre il mefistofelico ministro della difesa propone in maniera sinistra di riservare lo stesso trattamento agli Afghani, mi ritrovo a scrivere qualcosa su questo film Serbo nel quale sono incappato per puro caso. Si tratta infatti di un altro adattamento della novella di Gogol di cui avevo parlato nel primissimo post di questo blog, ma che non avevo menzionato affatto quando al tempo parlai delle altre riduzioni della stessa storia.

Comprensibilmente il suo regista Đorđe Kadijević è considerato dai suoi compatrioti una importante personalità. Un popolo che cerca di riappropriarsi della propria identità e della propria cultura a lungo negata da vicissitudini storiche deve giustamente andare orgoglioso dei propri creatori d'arte. Costui nel particolare è autore di quello che viene considerato il primo horror del cinema serbo, quel Leptirica basato su Posle devedeset godina di Milovan Glišić, opera importante tanto per la letteratura del luogo quanto per capire il successivo Sveto Mesto (luogo sacro) che è oggetto di questo post. Come nota laconicamente la pagina wikipedia Inglese dell'autore, Glišić potrebbe essere considerato il Gogol serbo, ma in realtà non conoscendo la sua opera mi sembra un po' avventato definirlo tale. Certo è che sue sono le traduzioni locali dei capolavori del maestro, quindi una certa influenza potrebbe risultare comprensibile e la tal cosa  potrebbe chiudere il cerchio anche sulla scelta di ridurre il Viy da parte di Kadijević.


Leptirica è un breve film per la televisione che ha avuto a quanto pare un impatto abbastanza notevole sull'immaginario dei telespettatori dell'epoca arrivando persino a far ricevere accuse di "terrorismo" mediatico da parte dei giornali al suo autore2. Ad ogni modo sembrerebbero tutte queste occorrenze ad aver funto da prodromo alla decisione di realizzare Sveto Mesto. Il film, che è recentemente riaffiorato alla luce ed è stato proiettato al Fantasia Festival 2010 è stato realizzato nel 1990, ma non fu possibile vederlo al cinema perché in quegli anni si accesero i primi fuochi della guerra nei Balcani, per cui godette della sola trasmissione televisiva. Significativo e malinconico il fatto che il film sia stato editato in dvd senza alcuna re-masterizzazione poiché i negativi della pellicola sono attualmente in Croazia e non vi è stata ancora la possibilità di farli rientrare in patria.


Dopo la doverosa introduzione è il caso di parlare del film stesso. Nel tempo che è corso tra quel post su Viy e quello odierno ho quantomeno approfondito andando a leggere il libro originale in maniera tale da comprendere in che direzione si siano mossi i russi e il regista serbo. Narrativamente bisogna dire che vi è una notevole aderenza da parte dei primi alla storia originale, mentre il serbo, sebbene segua per gran parte i binari della narrazione originaria, inserisce nella sua opera una ricontestualizzazione al suo territorio ed amplia il sottotesto erotico dell'opera Gogoliana, sottraendo però l'elemento fantastico e sovrannaturale. I tre3 russi come spiegato nell'altra occasione virarono verso una rappresentazione della Pannotchka bella, bianca e diafana in totale contrasto con gli elementi circostanti: i neri preti, gli abitanti del borgo e l'oscura chiesa piena di icone. In qualche modo tale contrasto è presente anche nello scritto, ma non vi è alcuna presenza della simpatia per la strega mostrata dai registi nel film. La lacrima di sangue, la bellezza sovrannaturale e il sentimento d'amore del padre sono usati dallo scrittore come elementi che usa il male per dissimulare il divino, come tipico di molta letteratura allegorica. Insomma la donna non ne esce proprio bene ed in parte è corresponsabile del male nel cuore umano proprio per sua stessa natura4. Nel film russo quindi sparisce volutamente questo aspetto e si privilegia quello favolistico e fantastico, mentre in quello serbo diventa occasione e spunto per spingere dal versante dell'oscurità che si può celare nella sfera sessuale umana.


Nel romanzo il pavido Khoma veniva spaventato a morte prima delle tre notti in chiesa dalle voci che correvano sulla Pannotchka. Quelle stesse voci diventano per Kadijević spunto per poter ampliare la storia con dei flashback episodici tra una notte e l'altra. Tutti i flashback sono volti a mostrare la poca fiducia del regista nell'essere umano, la Pannotchka (Branka Pujić) è una accentratrice di attenzioni nel borgo, riduce alla follia o fa cadere nel peccato chiunque la circondi: l'addestratore di cani Nikita (presente anche nel libro), lo stesso padre e finanche la cameriera. Il regista non si fa mancare nulla insomma tra sadismo, legami incestuosi e lesbismo soffuso, ma vorrei tranquillizzare al riguardo che leggerne è più impressionante della rappresentazione stessa dei temi nel film.


Il fallimento del film è infatti proprio nelle scelte di resa di questa donna perversa. Viene tolto di mezzo il sovrannaturale per far spazio ai tremendi istinti umani, ma la presunta escalation di bassezza umana è accennata e goffa in più di un punto. Non essendo presente nulla di così spinto da poter provocare disagio, il regista si sarebbe dovuto almeno affidare ad una meccanica degli eventi più efficace, invece viene superato a destra da buona parte del cinema exploitation del resto del pianeta che fa lo stesso sporco lavoro con stratagemmi certamente meno raffinati. Insomma la presunta ricerca di autorialità nella rappresentazione finisce per essere controproducente e non arriva a colpire come e dove dovrebbe l'immaginazione dello spettatore.


Praticamente non è un film che dovrebbe far forza sull'effettaccio, ma quello che ci si ritrova tra le mani sono tre frammenti aneddotici in cui l'accennato lesbismo finale sembra addirittura insensato, che vengono inframezzati dalle notti in chiesa che invece erano l'elemento portante della riduzione russa. Queste notti mostrano la pur brava Branka Pujić dimenarsi come un'ossessa per provare ad afferrare il prete (Dragan Jovanović) senza alcuna presenza di elementi fantastici come la bara volante o i demoni del primo. Svanisce persino la comparsata ultima del Viy ed il finale è quasi avvilente nel suo seminare dubbi sulla presunta psicosi collettiva del borgo. Il regista può anche rifugiarsi nell'intervista, rilasciata in quel del Fantasia Festival, in spiegazioni ed elucubrazioni che propongano il lato oscuro umano e l'irrazionale come controparte della superstizione, ma  il risultato è davvero al di sotto delle aspettative e delle potenzialità della sua idea originaria.


Il film è sì importante per il cinema serbo, è sì importante come esempio di riduzione creativa di una novella, è sì potenzialmente interessante, ma definirlo riuscito sarebbe scorretto. Con gli stessi mezzi, ma forse con meno limiti rispetto a quelli imposti dalla società Jugoslava dell'epoca, altri registi avevano certo fatto di meglio nelle stessi territori esplorati da Kadijević. Non piace nemmeno la staticità e la frontalità ricercata delle inquadrature che nel corrispettivo russo affascinavano invece per profondità e dinamismo. Ad ogni modo l'opera andava certamente recuperata dallo scrigno polveroso in cui era finita, fosse anche per la nenia tipica dell'horror coevo che si ripete per tutta la durata ad libitum in maniera ipnotica. Fosse anche per mostrarci le potenzialità dell'immaginario slavo giustamente evidenziato dal regista.


Scheda tecnica
Sveto mesto
Anno : 1990
Regia : Đorđe Kadijević
Soggetto : Nikolai Gogol
Sceneggiatura: Đorđe Kadijević
Cast :
Dragan Jovanović
Branka Pujić
Aleksandar Berček
Mira Banjac
Danilo Lazović
Maja Sabljić
Predrag Miletić
Radoš Bajić
Dragan Petrović
1. Bastava effettivamente che i nostri prodi alfieri dell'informazione cercassero persino su wikipedia per documentarsi un minimo su fatti così antiquati di un epoca remota (un decennio fa), ma probabilmente sono abili solo a cercare le notizie su facebook.
2. Una esauriente storia del cinema di genere serbo è presentata a questo indirizzo da parte di Dejan Ognjanović probabilmente il massimo esperto di cinema della sua nazione.
3. Si ricordi che ai due registi del Viy si aggiunse in un secondo momento il decisivo apporto di Aleksandr Ptushko.
4. Non sono un grosso esperto dello scrittore russo, ma dai suoi studiosi ne emerge un ritratto davvero singolare di personaggio assolutamente geniale, ma umorale e bipolare.

mercoledì, ottobre 13, 2010

La Llorona | Palingenesi continua di una madre

Volevo cercare di capire cosa spinge perennemente il cinema messicano a rispolverare puntualmente la figura di spettro dolente e sottilmente affascinante che prende il nome di Llorona, ma onestamente non potevo prevedere si aprissero le porte su un  mito multiforme che al folklore intreccia simbolismi e persino accadimenti storici. La leggenda non è certamente diffusa nel solo Messico, ma è declinata in molte versioni in diverse nazioni del cono sudamericano, nonché in tutti quegli stati della federazione statunitense dove esiste una valida componente chicana nella società (Colorado, New Mexico, Texas, California, South Arizona). L'elemento comune che emerge dalla gran parte di tutte queste versioni della stessa creatura è quello di una donna infanticida che ritorna alla disperata ricerca dei suoi figli una volta resasi conto dell'atrocità del suo gesto, mentre sono molto diverse le motivazioni con cui si spiega l'estremo atto, così come sono molteplici e spesso antitetiche le interpretazioni simboliche che vengono date alla vicenda.

Llorar per chi non comprendesse lo spagnolo è l'equivalente del verbo piangere, e l'atto del pianto e il lutto sono fattori endemici al suo mito. Il pianto stesso è la singolare arma di questa creatura che avverte in tal modo della sua presenza e crea sgomento tramite la sua disperazione, mentre per il resto il suo aspetto1 è talmente tradizionale da poter essere anche assimilato agli spettri bianco vestiti di donna di tutti gli altri continenti. D'altra parte il bianco è l'unico colore che si presta nella notte a dare forma alle apparizioni e mi meraviglia che pochi studiosi di folklore lo abbiano mai notato, mentre preferiscono pensare che il mito della dama bianca, presente in Francia, Olanda, Germania, come in Asia sotto altre forme si diffonda tipo pandemia per tradizione orale. D'altra parte basta chiedere in giro per scovarne anche in Italia racconti di apparizioni di donne fantasma vestite di bianco e per questo mi sento di dire che ragionando così si arriva poco lontano.

Il documento più interessante che ho trovato al riguardo è stato scritto da Bacil F. Kirtley2 diverso tempo fa e sebbene un po' datato e relativo solo all'aspetto folkloristico e trascurante di gran lunga quello simbolico della figura, mi sembra ciononostante il più interessante. Molte fonti fanno spesso confusione attribuendo al mito una origine pre-colombiana descrivendolo come derivazione della figura della dee madri Coatlicue e Cihuacoatl, con quest'ultima che spesso recita la parte di dea a sé stante, ma talvolta presentata come possibile manifestazione della prima3. Entrambe sono dee serpente e rappresentano madri, ma Cihuacoatl nello specifico era considerata dea della fertilità, protettrice della maternità e delle donne morte di parto, atto che nella società Azteca era spesso accostato alla guerra e di conseguenza avvicinava l'immagine delle partorienti a quella di guerriere. La convinzione della vicinanza delle due figure è rafforzata in molti studiosi dalla lettura di una delle testimonianze dell'epoca coloniale come il Codice Fiorentino redatto da  fra' Bernardino de Sahagún:
"E quando appariva dinanzi agli uomini, era ricoperta di gesso, come una donna di corte. Indossava orecchini Náhuatl, orecchini di ossidiana. Appariva in bianco, vestita di bianco, elevandosi bianca, puramente bianca. La sua acconciatura femminile fluttuava nell'aria. Di notte camminava piangendo, gemendo; inoltre portava con sé un presagio di guerra."4

Effettivamente la somiglianza c'è ed è difficile negarla, ma giustamente Kirtley porta l'esempio della leggenda della donna bianca che è omologo a quello della tedesca Weiße Frau ovvero un altro noto fantasma di infanticida pentita. Sebbene mi risulti un po' pretestuoso che questa leggenda possa essere stata trasportata dai colonizzatori europei o dagli stessi religiosi, la cosa non è affatto da escludere considerando che la stessa leggenda di Cihuacoatl è stata probabilmente distorta dai religiosi cristiani come buona parte degli antichi culti locali e come provato da gente più autorevole di me nel campo. Lo stesso Sahagún oltre tutto per portare fedeli al suo capezzale insiste sulla natura malevola della dea che terrificava e spaventava tutti.

Mi sembra però più interessante l'osservazione che difficilmente vi possa essere una radice azteca in una narrativa che presenta tipici tratti ispanico-cristiani. Uno dei racconti più accreditati sulle origini della Llorona è quello tipico di Mexico city in cui una bella donna mestiza (meticcia) di umili origini (Doña Luisa de Olveros) si innamora di un nobile (Don Nuño de Montesclaros) con cui ha due figli. Abbandonata da costui per un matrimonio di convenienza si presenta senza invito alla cerimonia e al suo ritorno a casa uccide i due figli. Pazza di dolore finisce ad urlare per le strade alla ricerca dei figli. Stando alle cronache il fatto è realmente accaduto nel 1550, anche se non ho trovato fonti decenti in rete, e la donna è stata condannata alla pena di morte e il suo amante è morto suicida. Tutte le altre versioni che variano di paese in paese sono simili e in genere presentano la figura di una donna abbandonata o tradita che sfoga il suo rancore sui figli e per questo risulta difficile associare questi temi vendetta\rivincita sessuale sul compagno in una società come quella azteca. Piuttosto come osserva sempre Kirtley si tratta probabilmente di una discendenza da una comune forma ancestrale in cui maternità, sessualità, vendetta e lutto si ripetono5. In fondo anche nei fatti di cronaca quotidiani se ci si fa caso c'è sempre attenzione (finanche morbosa) verso accadimenti similari che si saranno sempre verificati nella storia dell'umanità.

Non vado oltre sulle varie versioni per non tediar troppo chi legge, ma preferirei soffermarmi su come altra narrativa accosti la Llorona alla figura della Malinche. Doña Marina è una delle donne simbolo della società messicana: in breve si trattò (probabilmente) di una principessa Azteca venduta come schiava agli spagnoli per evitare che accampasse diritti di successione a scapito del fratellastro6. Finì per essere l'interprete indigena per lo stesso Hernán Cortés ed ha subito agli occhi dei messicani diverse trasformazioni che ne hanno alternato visione e ruolo. Analogamente alla Llorona presenta tratti di bontà e malvagità misti, vista contemporaneamente come portatrice di distruzione nella società azteca, secondo la rilettura degli storici nazionalisti messicani che la definirono spregiativamente chingada (schiava sessuale), e come simbolo di indipendenza e femminismo in qualità di donna che operò scelte sulla sua vita e seppe imporsi e rivestire ruoli di importanza in una società aliena come quella rappresentata dai colonizzatori. Da Cortés la donna ebbe anche un figlio, che in un eccesso di fantasia e con nessuna prova storica al riguardo, viene ritenuto assassinato dalla stessa in più di una narrativa, dopo l'aver appreso la notizia che il padre volesse separarlo dalla madre. Non ci si lasci sfuggire che in questo modo la Malinche diventa la madre del primo mestizo nella storia, ovvero del primo messicano, e quindi la sua cifra simbolica di madre amorevole e spietata allo stesso tempo si raddoppia.

Significativamente mi sono imbattuto in due opere che riguardano la Malinche e che mostrano quanto confusa e dolorosa fosse la visione di questa donna. Uno è El sueño de la Malinche (1939) di Antonio Ruíz, pittore surrealista messicano, in cui la donna dorme e sul suo corpo prendono forma un villaggio messicano con in cima una chiesa. La tensione e la drammaticità del suo sogno sono simbolizzate dal muro malfermo e dal fulmine in alto a destra. L'altra opera è Cortez y La Malinche (1926) by José Clemente Orozco, altro dipinto murale7 poco chiaro in cui si nota la grossa differenza di carnagione e tratti tra il conquistador e la donna, ma non si capisce se lui voglia proteggerla con quel gesto del braccio o tenerla a sé come preda sessuale. Ai loro piedi giace probabilmente il figlio che rappresenterebbe il messico, riverso e sofferente, di cui ci viene negato il volto.

Non cito la vicenda della Malinche solo per completezza, ma anche perché spesso la cinematografia tende a confondere e sovrapporre le due figure. Inoltre questa cosa è decisamente interessante e forse spiega anche l'eterno ritorno della Llorona in arte, musica8 e cinema per i popoli latinoamericani. Credevo infatti fosse semplicemente la figura di donna disperata che ha commesso il più atroce dei delitti per una madre in preda alla furia della vendetta ad attrarre continuamente l'attenzione e invece scopro che la Llorona è stata assunta a vero e proprio simbolo di una nazione nel momento in cui è stata fusa con la Malinche. In conclusione mi piacerebbe citare il famosissimo lavoro di Gloria Evangelina Anzaldúa, personaggio importante della cultura chicana, singolare fusione di studiosa, attivista lesbica e spiritualista, nonché autrice del trattato Borderlands/La Frontera: The new mestiza che purtroppo non ho letto, ma viene spesso citato da molte fonti per aver teorizzato le tre madri dei chicanos con quanto segue:

"Sono tutte un simbolo: Guadalupe, la vergine che non ci ha abbandonato, la Chingada, la madre stuprata che noi abbiamo abbandonato, e la Llorona, la madre che cerca i suoi figli perduti ed è una combinazione delle altre due"

La studiosa in un profluvio di teoria femminista associa la Madonna meticcia di Guadalupe, la Malinche e la Llorona. Mi sembra la chiusa migliore prima di passare ai film nei miei futuri post.


1. La foto scelta non mostra la Llorona nella sua forma tradizionale, ma la trovo molto bella. Non si tratta di un dipinto, bensì di una delle opere di tessitura\ricamo di Jenny Hart.
2. "La Llorona" and Related Themes, Bacil F. Kirtley, Western Folklore, Vol. 19, No. 3 (Jul., 1960), pp. 155-168
3. Mi si perdonino i link alle (probabilmente) lacunose e inesatte pagine wikipedia, ma suppongo google lo sappiano usare un po' tutti se interessati a maggiori dettagli.
4. Il brano l'ho estrapolato e tradotto dall'inglese dal libro Feminism, Nation and Myth: La Malinche  di Romero - Harris, di cui non dispongo copie, ma del quale Google Libri è stato così gentile da darmi l'anteprima della pagina che mi serviva.
5. Dopo questa osservazione allora mi sento di poter citare i miti che non ci entrano nulla perché separati da spazio e tempo, ma citati spesso da chi parla della Llorona per qualche vaga somiglianza (l'ebrea Lilith, la greca Medea e le Langsuir malesiane).
6. Non so quanto sia affidabile storicamente, ma mi sembra molto esauriente la versione biografica che trovate qua. Lieto ovviamente di essere smentito con link più attendibili.
7. Qui è possibile ammirare il dipinto nella sua locazione originale del collegio di San Ildefonso.
8. Esiste anche una famosissima canzone dedicata alla Llorona a cui dedicherò un post prima o poi perché lo merita ampiamente.

mercoledì, ottobre 06, 2010

Intrepidos Punks + La Venganza De Los Punks | Come ti demolisco l'iconografia dei giovini

Tempo di dedicarmi un po' al cinema popolare messicano. Una sana dose di botte da orbi, spari, baffi, seni rifatti e nonsense è proprio quel che ci vuole.  Di seguito parlerò di due film accomunati da diversi attori in comune, sebbene girati da registi diversi, difficilmente visibili e nemmeno facilmente collocabili temporalmente: Intrepidos punks e La venganza de los punks. Vista la pessima qualità della fonte in mio possesso, mi son permesso di aggiustare e rendere ancora più psychotronici alcuni screenshot sperando che non vi offendiate per questo. Si aggiunga anche che siccome ci tengo al mio pubblico di educande signorine ho censurato alcune oscenità che avrebbero potuto turbarle intimamente come il seno scoperto di una delle protagoniste. Con questa doverosa introduzione che mi salverà dagli strali dell'integralismo videocassettaro passo a parlare degli oggetti in questione.

Intrepidos punks

Dovrei chiedermi prima di tutto quale assurda storia produttiva possa mai esistere alle spalle di due film con gang composte di punks dedite alla più sfrenata violenza, ma preferirei soffermarmi sul bello della Mexploitation che ha sempre la capacità di portare a livelli sublimi qualsiasi stimolo proveniente dall'esterno. Quando saranno stati realizzati questi film l'epopea del punk vero era già finita, ma ne era rimasta parte dell'iconografia. Invero, a dirla tutta ancora non si può dichiarare del tutto morta visto il numero di ragazzini con gli spikes in giro per strada nelle nostre strade al giorno d'oggi. Ad ogni modo i punks messicani sono più cattivi dei nostri giovinotti dotati di cresta. Sono efferatissimi e fanno gruppo e non hanno alcun freno inibitorio verso tutto ciò che può destabilizzare l'ordine pubblico. Tanto che le loro donne pur di liberarli dal carcere sono pronti a rapinare banche travestite da suore uccidendo gratuitamente gli avventori, a comprare armi da malavitosi orbi e a sequestrare le signore dei carcerieri fino ad amputare loro le mani per fargli arrivare forte e chiaro il loro messaggio. 



La polizia però non sta a guardare. La star esclusiva di entrambi i film, come la casa di produzione Eco Films s.a. tiene a farci sapere nei titoli di testa, è il baffuto e simpatico Juan Valentin, star della musica ranchera che potete ammirare in una miriade di diverse pose1 con sombrero di ordinanza per la gioia di grandi e piccini dandoci un po' dentro di google. Mentre so poco del coprotagonista Juan Gallardo che fa il poliziotto allegro e simpatico, ne so ancor meno sul terzo poliziotto (federale) amicone che arriva quando è tempo della resa dei conti tra polizia e punks verso il finale. Tuttavia si possono trarre dal film diversi insegnamenti sulla società messicana di quei tempi, come ad esempio scoprire che il 90% delle persone che lavorano in posti di autorità siano dotate di baffi. Non sfuggono infatti alla categoria i tre tutori della giustizia, che fortunatamente non vediamo imbracati nelle loro divise, e nemmeno il loro capo. Spero le due catture fotografiche mostrino adeguatamente la proliferazione pilifera lungo le labbra dei buoni.



Veniamo però alla parte interessante del film ovvero le fanciulle. Il film è occasione per la sfilata di molte vedette messicane ove con la parola vedette si intende per l'appunto una figura di donna dell'avanspettacolo molto comune nel sudamerica di quegli anni. In Messico prevalentemente vi è stata forse la più ampia esplosione del fenomeno, che aveva valenze sociali e culturali ben più profonde delle osservazioni di un qualsiasi Vincenzo Mollica sul burlesque, portato recentemente in scena anche da quell'attrezzo indescrivibile di Dita Von Teese a Sanremo in un tragico incrocio di tutto il peggio dell'umanità occidentale in prima serata sulla vostra rete nazionale. Insomma una qualsiasi persona normale saprebbe ben discernere l'aspetto cupo della mercificazione del corpo soprattutto in quegli anni in cui le donne di spettacolo erano trattate come bestie da soma sui palcoscenici di prima e seconda linea. L'unione di un retroterra tragico con l'aspetto esteriore fatto di pailettes e lustrini è quanto di più tipicamente messicano si possa trovare e mi ritrovo in attesa dell'annunciato documentario di María José Cuevas che si intitolerà Bellas de noche2 e che si speri faccia un minimo di giustizia alla storia di queste donne con la loro viva testimonianza.




Mi si perdoni l'excursus, ma vedere al giorno d'oggi l'esplosione del fenomeno pinup e del burlesque è come al solito irritante e deleterio e finisce per cancellare le ragioni storiche e sociali dei veri fenomeni d'epoca decontestualizzandoli. Un po' come quando vogliono vendervi le tradizioni locali alle sagre di paese e dovreste riflettere sul fatto che vostra nonna probabilmente fa con le sue mani gnocchi molto più buoni del millantatore di turno. Ad ogni modo questo era solo per citare il ruolo centrale delle vedettes in molto cinema popolare messicano, tanto che n
el film in questione abbiamo l'occasione di vedere tutte queste donne in versione perfida e cattiva. Solo nella gang troviamo la Princesa Lea (Fiera), Olga Ríos (Carocha) e Rosita Bouchot (Araña). Mentre l'ultima ha avuto certamente una carriera più lunga e altolocata tra televisione e cinema con meno ruoli arditi, le prime due hanno come background proprio l'avanspettacolo. Si trovano pochi dati sulla Ríos anche se a lei spetterà il ruolo di protagonista del secondo film, ma la vera regina del primo film è la Princesa. Di origini canadesi, il suo vero nome è Susan Fair, e come ci informa la presentazione del documentario della Cuevas di cui è una delle sette protagoniste prende il suo nome LEA, non dalla quasi omonima principessa di Star Wars, ma dalle iniziali del presidente messicano (Luis Echeverria Alvarez) al tempo delle sue prime esibizioni. Simbolicamente la cosa va a chiudere il cerchio circa l'importanza delle vedettes tra gli anni '50 e '70, notoriamente amanti di uno o contese da più uomini di potere.




Anche la Ana Luisa Peluffo, vedette della generazione precedente rispetto alla Princesa e alla Ríos, è accreditata nei titoli di testa nelle prime posizioni a volerci render nota la sua importanza, ma vista la differenza anagrafica suppongo sia una delle 50enni mogli delle autorità che vengono assaltate durante il film. Senza voler dare al film una aura mistica che non può avere un minimo di sottotesto si avverte proprio in quei momenti in cui le mogli borghesi discutono per esempio di quanto è bello fare un'orgia per poi essere assaltate dalla gang dei punks in cerca di ostaggi per liberare il loro capo dalla prigione. Ovviamente al potenziale esplosivo di queste cose e alla probabile buona volontà dei realizzatori, come al solito si associa un pessimo impianto realizzativo. Sembra infatti tutto buttato lì a casaccio, compresa la presenza di El Fantasma, stranamente non accreditato nei titoli di testa, che ci regala la visione del suo temibile costume leopardato e della sua maschera rifrangente, e forma una improbabile coppia con la protagonista.




Si ha l'impressione nel caso di Intrepidos punks di due film che corrano parallelamente e sebbene gestiti scolasticamente da Francisco Guerrero risulta proprio difficile ritenerli un poliziesco serrato o finanche un semplice film exploitation. Da tener conto è il fatto che praticamente la policia passa il tempo a dar la caccia ai contrabbandieri, poi agli spacciatori, poi ai rivenditori di armi prima di occuparsi dei punks, mentre contemporaneamente vediamo i cattivi far razzia, commettere crimini su crimini e fare festa selvaggia. Tutto si risolve praticamente in un nulla di fatto ed anche la presenza di El Fantasma nel ruolo di Tarzan capo gang dei punks non dà la sana svolta verso il lucha movie3 che uno si aspetterebbe, se si pensa che c'è una sola mossa di wrestling in tutto il film. Certo le stravaganze disseminate lungo tutto il film sono pane per i denti dell'amante del fattore weird più assoluto, a cominciare dai punk che non sono punk4, ma piuttosto degli amanti del face painting più sfrenato e delle acconciature stravaganti più consone all'hair metal che al suddetto genere.



Vanno a far mucchio nel computo delle assurdità di questo film le stelline ninja usate da alcuni punks, i duelli tipo moderni cavalieri tra i punk motociclisti, la impossibile roulette russa e soprattutto la band autrice della colonna sonora che compare magicamente a suonare durante la deragliante scena alla arancia meccanica del sequestro delle donne dei carcerieri. I Three souls in my mind, noto gruppo rock messicano è ai tempi di questo film praticamente a pezzi. Da quel che ho compreso si tratta del solo batterista (Charlie Hauptvogel), che ottenuti i diritti per lo sfruttamento del nome, si occupò anche dell'intera colonna sonora del film. La canzone che impesta praticamente tutto il film e ne mutua il titolo è davvero assurda. Basti solo citarne alcuni stralci che non traduco per non rompere la loro valenza esotica:
Intrépidos punks, intrépidos punks, en las carreteras, y ciudades también, robando al que sea, rompen siempre la ley [...] Sexo, drogas, violencia y mucho Rock and roll
 


Resta difficile datare questo oggetto non identificato della Mexploitation. IMDB risulta al solito abbastanza inutile quando si tratta di annotare dati su film che non siano nordamericani e così tocca scavare un po' per capire da dove viene tutto questo copioso ben di Dio composto da questo film e dal seguito. Difficile credere che i film siano stati girati nel 1980 e nel 1991 vista la compresenza di molti attori in entrambe le pellicole. Oltre tutto 10 anni di differenza dovrebbero essere ben visibili sui visi degli attori, quindi è ipotesi da scartare a priori. Sotto i titoli di testa di Venganza de los punks figura un bollo copyright del 1987 che probabilmente si riferisce all'anno di lavorazione. L'ipotesi più plausibile è che venganza sia stato girato qualche tempo prima, ma è anche ugualmente probabile che gli anni di distribuzione nei cinema siano stati diversi.


A questo punto però passerei al sequel di Intrepidos Punks citando nel finale la terribile scoperta che ci dice qualcosa sull'origine di tutti i mali del film (e forse del mondo) e sull'alone di pessimismo che attanaglia nell'ultima conciliante scena di una cena il capo della polizia, il quale si domanda se le vicende appena accadute non siano altro che uno degli anelli di "una lunga catena". Ebbene ecco a voi il fotogramma rivelatore: il male del mondo è il cattivo progressive! I punk sono fan degli Yes e della loro terribile musica e per questo hanno voglia di annientare tutti i valori su cui fonda la vostra società, distruggere le vostre famiglie e vivere nel nichilismo più assoluto. Onestamente non so dargli torto. Dategli in pasto i Joy division e vedrete come le cose andranno meglio su questo pianeta.


Scheda tecnica
Intrepidos Punks
Anno : 198?
Regia : Francisco Guerrero
Sceneggiatura :
Cast :
Juan Valentín - Marco
Princesa Lea - Fiera
Olga Ríos - Carocha
El Fantasma - Tarzán
Rosita Bouchot - Araña
Martha Elena Cervantes
Juan Gallardo
Alfredo Gutiérrez
Gullermo Lagunes
Ana Luisa Peluffo
Andrea Aguirre
Laura Tovar

La venganza de los punks


Tra i due film c'è uno stacco notevole ed infatti il secondo, diretto da Damián Acosta Esparza, riprende vagamente i personaggi, ma usa tutt'altro schema narrativo, che per quanto impossibile da pensare è ben peggiore del precedente scelto da Guerrero. Il film è decisamente mutuato dal modello americano de Il giustiziere della notte, non si perde in chiacchiere e parte dall'evasione dei punks fatti prigionieri nel primo episodio. In parallelo il buon poliziotto Juan Valentin sta festeggiando il 15esimo compleanno della figliuola con la moglie (Luz Maria Jerez6), quando irrompono i malviventi e fanno una terribile e violenta strage assolutamente priva di qualsiasi empatia e virata sul comico dall'abile regia di Esparza. 




Da questo punto in poi inizia il vero delirio che ruota tutto attorno al personaggio di Valentin in cerca di vendetta. Stavolta non ci sono colleghi buontemponi al suo fianco, ne la collaborazione di poliziotti federali, ma solo lui contro tutti, nero vestito e col baffo che punta verso il basso come da tradizione per Charlie Bronson. La cattiveria del baffo in questo altro film si ripercuote in una matrice più exploitativa del prodotto e nella escalation della sua divorante follia. Si passa dallo sguardo vendicativo dipinto sul suo viso mentre assiste al massacro in casa, mormorando "fareste meglio ad uccidermi", agli occhi strabuzzati di chi ci sta prendendo gusto mentre frusta una delle sue vittime fino alla gaia risata mentre usa lanciafiamme, mannaia, acido e mitragliatore per fare strage di punks.



L'altra superstite del precedente film è Olga Ríos, che non si chiama più Carocha, bensì Pantera e si prodiga anche lei nel dare l'interpretazione della vita come Valentin. La vasta gamma di espressioni facciali cordinate con i suoi vaporosi e laccati capelli è imperdibile, ma ci si distrae facilmente da tutto ciò visto che per buona parte delle sue scene è semi ignuda. Ho avuto un certo pudore e rispetto nel non fare una cattura che desse conto della circonferenza fianchi della donna, ma fidatevi che sono al di là di molte leggi fisiche. Si passa quindi da improbabili completini sfoggiati come se non ci fosse un domani, passando per scene sexy col suo nuovo partner (El Fantasma) per questo film, fino ad arrivare al momento in cui il folle poliziotto la sequestra e frusta. Niente paura però, perché la ricercata ultraviolenza è mitigata dal comico involontario dettato da una regia piatta e senza vergogna alcuna del budget da serata in pizzeria con gli amici.



Come si diceva un'altra eredità da Intrepidos è il luchador El Fantasma, che non pago di aver trovato subito consolazione con la Ríos dopo la prematura dipartita della Princesa Lea nel precedente episodio, sfoggia costumino su costumino5 in un delirio continuo di colori e maschere improbabili. La devozione per il dimonio accennata con qualche disegnino nel precendente film è stavolta sviluppata con tanto di rito celebrato dal wrestler. D'altra parte è proprio così che ci si immagina gli adepti del male normalmente, muscolosi, oliati e con costumini attillati nei punti giusti. Ad ogni modo stavolta non c'è un semplice poster, ma addirittura una statua del dimonio tutta plasticosa e con tanto di occhi fatti con mini lampadine intermittenti. Suppongo non siano oggetti in vendita in tutti i supermercati, ma preferirei non divagare e citare di passaggio la mise del Fantasma in questo caso: praticamente indossa il cappuccio del Ku Klux Klan, ma è fatto di mille colori. Spero lo screenshot renda giustizia alla cosa.





Sui restanti punks passerei velocemente, anche perché il feroce face painting di Intrepidos non viene mantenuto in questa pellicola a scapito di qualche cresta un po' più verosimile. Vikingo, Loco e gli amichetti non lasciano il segno, apparte il tremendo baffone Ojal che era presente anche nel precedente episodio, ma che non sono riuscito ad identificare, e che cerca di conquistare la guida della banda a scapito del wrestler. Lo sfigato farà una terribile fine da parte di Valentin che gli trapassa il cranio con uno spunzone del muro in una delle scene di uccisione meno ridicole. Le altre sono con lanciafiamme o con paletti di frassino o con taglio della testa plateale o con colate di acido (la lamentosa Anaís De Melo truccata come il bowie di Aladdin Sane) o con tarantole velenosissime. Mi soffermo poco sulla ignobile regia di Esparza, perché l'unica cosa per cui passa alla storia questo film è proprio il fattore idiozia. Anche la colonna sonora stancamente svolta da quel che rimaneva dei Three souls in my mind è incolore e non presenta nemmeno più il tormentone del precedente episodio





Le domande da porsi sarebbero proprio sulla produzione di questo film. Forse è un film fatto con ciò che avanzava dal set del precedente compresi gli attori? Non sembra nemmeno mai uscito al cinema, visto che non si trova alcuna locandina originale al contrario del precedente. La fattura è talmente bassa che Intrepidos sembra Shining al confronto. Purtroppo questi misteri rimarrano insoluti a meno di chiedere a qualcuno dei protagonisti o dei realizzatori. Mi accontento con l'aver identificato la rossa poliziotta dai meravigliosi capelli che compare per un breve tratto di film: Ana Luz Aldana che fa una partecipazione speciale (persino accreditata), ma che pare aver avuto una breve e incolore carriera. Maledizione. Sono sempre le migliori che vanno via per prime.




Scheda tecnica
La venganza de los Punks
Anno : 1987 (anno di produzione)
Regia : Damián Acosta Esparza
Sceneggiatura : Roberto Marroquin
Cast :
Juan Valentín - Marco
Olga Ríos - Pantera
El Fantasma - Tarzán
Fidel Abrego
Socorro Albarrán
Arturo Von Son
Anaís de Melo
Tito Guillén
Luz María Jerez - Moglie di Marco
Arturo Masson
Bruno Rey
Laura Tovar
Ana Luz Aldana
Ulises Aguirre Jr.
Blanca Nieves

1. Mi son permesso di scegliere quella che mi sembrava più gioviale.



2. Il documentario (di cui si parla qui e qui) dovrebbe essere presentato prossimamente. Speriamo sia bello e dia qualche indicazione non solo sulle sue protagoniste e sul fenomeno di costume, ma anche sul cinema legato alle vedettes. In realtà queste performers non furono protagoniste solo nel cinema exploitation, ma erano spesso all'interno del cinema delle ficheras di cui ben poco è noto all'esterno del messico, se non che è vagamente ispirato alla nostra contemporanea commedia erotica delle nostre starlettes.
3. I luchadores assieme alle vedettes sono una delle altre grandi costanti del cinema popolare messicano, però in genere i film ruotano attorno ad essi con botte da orbi tra loro e altri wrestler oppure nanetti malefici e forzuti oppure mostri di tutti i generi da Dracula all'uomo lupo passando per le mummie.
4. Sui commenti alla recensione di Revista Cinefagia, sito messicano dedicato al cinema di genere, intervengono diverse persone tra cui il figlio della Princesa che sostiene si mescolarono agli attori diversi veri punk. Effettivamente come osservano altri commentatori difficile credere si tratti di punk, ma probabilmente si sarà trattato di una banda di motociclisti vista la vasta presenza di moto cafonizzate.
5. In realtà questo assurdo costume leopardato di El Fantasma è una novita essendo ben noto nella federazione messicana per il suo costume rubato al fumettistico Phantom (L'uomo mascherato in Italia) di Lee Falk.


6. Rasenta l'incredibile, ma è famosa per essere una delle protagoniste di una delle temibili telenovelas arrivate anche in Italia come Cuore di pietra (Tú o nadie).