lunedì, settembre 27, 2010

Katalin Varga | Livido ritratto della violenza

Katalin Varga è uno di quegli strani oggetti di cui vale sempre la pena parlare. Peter Strickland è autore dalla modestia infinita e nessuna altra parola lo descrive meglio di autore visto che il film è scritto, prodotto e diretto dallo stesso al suo esordio cinematografico. La travagliata storia di un regista che vuole a tutti i costi realizzare un film è degna di essere letta ed è ottimamente illustrata dal valido articolo del Guardian. Per chi non masticasse l'inglese in nessuna forma viene narrata tutta la storia di un povero squattrinato che però crede fermamente nella sua idea. Non parlo di "sogno", perché odio la retorica da telegiornale delle venti con cagnolini eroi che salvano i gattini dalle case in fiamme, ma parlo di idea. Idea costruita con anni di porte sbattute in faccia, di depressione per l'impotenza nel poter realizzare i propri progetti e di casi fortuiti. Il caso fortuito è una eredità da uno zio che dà a Strickland quei pochi soldi per alimentare le sue speranze, partire per la Romania e tra mille difficoltà trovare qualche altro soldo e maestranze locali per tirare su il suo film. Per prendere certe decisioni bisogna essere matti e Strickland ne aveva già dato buona prova, come narrato nell'articolo, quando dopo aver presentato un corto al festival di Berlino decide di trasferirsi a New York per mettersi sulle tracce di Nick Zedd. Sarei curioso di sapere di più su questo e se c'è stato questo incontro con l'autore del manifesto del Cinema of Transgression, più per dover di cronaca che per altro, visto che fortunatamente1 il cinema dell'inglese a poco a che fare con il cinema indipendente dell'americano.

Torniamo però alla sua modestia che trapela da ogni intervista e soprattutto dal pregevole commentario audio che è presente sul dvd inglese del suo film. Mi son sentito infatti di tornare doverosamente a vedere per la seconda volta il film con l'ausilio delle sue parole per poterlo approfondire. Katalin Varga non è infatti un film sciocco, bensì un'opera calcolata al millimetro che cerca di fare della sua andatura serrata e dei suoi strati impenetrabili di mistero virtù. Gioca tutto sull'intuizione dello spettatore e lo fa in maniera mirabile come solo maestri del genere hanno saputo fare suggerendo con inquadrature, sguardi, simbolismi e pura tecnica.


Quel che piace di Strickland è proprio questo suo entusiasmo e questa sua esigenza di comunicazione. Nella sua ingenuità svela cose che altri registi si terrebbero per sé. Ad esempio l'inquadratura laterale dalla vita in su della protagonista (Hilda Petér) col figliolo undicenne Orbán (Norbert Tankó) che vagano col loro carretto che serve a farla viaggiare sospesa nell'aria "come fosse una strega" oppure le ricorrenti scene di uccelli che solcano il cielo, spesso non appartenenti alla fauna romena, funeree, simboliste e fautrici di cattivi presagi. Ecco, se si dovesse sintetizzare questo film con un'opera d'arte non può che venire in mente uno dei capolavori dipinto non molto lontano dalla sua morte dal grande olandese2, quel campo di grano con volo di corvi che suggestionò talmente tanto i suoi studiosi che molti lo credettero dipinto il giorno stesso del suo suicidio.

L'atmosfera plumbea del film è devastante e permeante. Un'altra rivelazione dell'entusiasmo del regista è che le musiche del film c'erano ancor prima della sceneggiatura. Tra le tag di questo post hanno trovato spazio dark ambient e Steven Stapleton (mente dei Nurse with wound), che assieme al compositore Geoff Cox, è autore principale delle musiche, proprio perché la componente musicale è importantissima3. Lo stesso regista rivela che per ispirarsi ha ascoltato Pornography dei Cure e l'omonimo dei Suicide "all'infinito in cuffia durante il processo di scrittura". I punti stima per quest'uomo vanno alle stelle anche perché nello stesso discorso cita la visione continua di Shadow of (our) forgotten ancestors del maestro del cinema Armeno Paradjanov e La morte corre sul fiume di Charles Laughton e la colonna sonora del Nosferatu di Herzog fatta dai Popol Vuh. Verrebbero le vertigini solo a sentirle queste cose e sembrerebbero estratti dagli appunti di uno spocchioso studente di cinema, ma come già detto sono davvero le debordanti derive di un regista che è prima di tutto un amante del cinema.


Non troviamo sterili citazioni in Katalin Varga come da prassi negli esordi dei registi cinefili, ma vediamo un meccanismo oliato alla perfezione all'opera. La scelta del titolo la dice già lunga ovvero che il film è incentrato su di lei. L'inizio conferma la cosa: bussano alla porta e alcuni lugubri poliziotti chiedono se qualcuno ha notizie di Katalin Varga. Ma chi è Katalin Varga? Perché la cerca già la polizia prima dei titoli del film? Una bambina corre canticchiando per il prato e si blocca all'improvviso, c'è una donna nel prato a raccogliere erbe. Non può essere che Katalin Varga che ci viene presentata così, come un demone, ignorata da tutto il paese in cui vive mentre raggiunge il marito. Cacciata di casa perché aveva nascosto al marito che il figlio è frutto di una violenza, finisce in corsa col diavolo con tanto di figlio al seguito sopra un carretto, come nella tradizione del miglior cinema gotico inglese, diretta verso le foreste e i monti della Transilvania.



Per l'appunto la Transilvania è uno degli elementi portanti del film. Quanta differenza può fare la scelta dei luoghi in cui filmare è presto spiegata quando ci si chiede se la stessa storia avrebbe funzionato se ambientata altrove. La risposta è certamente negativa e trova ulteriore conferma nella stessa vicenda produttiva nel film. La difficoltà di comunicazione del regista con le maestranze locali viene affrontata dallo stesso più volte nel commentare il film, così come la non certezza di sapere cosa stessero recitando precisamente i suoi attori eppure, magia infinita del cinema, tutto si è autoregolato. La potente idea alla base del film ha fatto presa sugli attori visibilmente in stato di grazia. Ad esempio pare che l'ottimo Tibor Pálfy (Antal) abbia voluto per sé la parte dello stupratore di Katalin invece che la precedentemente designata parte del marito, mentre la scena madre del film è stata in larga parte improvvisata dalla bravissima protagonista.

Questa scena madre meriterebbe un capitolo a sé. Il film è effettivamente un oggetto anomalo che si basa su un canovaccio tipico del cinema di genere che ha decretato la nascita di un etichetta autonoma per questo tipo di film (rape and revenge4), ma sembra svicolare e allontanarsi da tutte le regole del genere. Ad esempio non vi è alcuna deriva rappresentativa dell'orrendo crimine, classico tòpos di cinema di genere e d'autore, presente in uno exploitativo L'ultima casa a sinistra quanto in un autoriale Rocco e i suoi fratelli. La violenza è come un terreno su cui si basa e fermenta tutta la vicenda, ma non viene mai mostrata, e persino i colpi inferti da Katalin ad uno dei suoi due aguzzini sono evitati con cura dalla camera. Per questo il film è talmente teorico e calcolato al millimetro da far impressione e questa tremenda scena di cui sopra è fatta di solo dialogo e montaggio.


Nonostante questo la scena in questione è di una violenza inaudita. Katalin riesce a ritrovare il suo stupratore, si fa ospitare da lui e dalla sua attuale moglie, osserva l'ignaro uomo giocare con suo figlio e ascolta impassibile persino i discorsi sulla bontà dell'uomo da parte della padrona di casa. Katalin è il demone della vendetta in agguato ed in cerca di libertà dal suo passato, ma decide di agire in maniera non convenzionale, lontana dai meccanismi del genere anche in questo caso. Durante una escursione in barca in compagnia di Antal e della moglie, racconta loro che Orbán è figlio della violenza descrivendo dettagliatamente ogni avvenimento in un crescendo di emozione tra i diversi trasporti emotivi della moglie e del marito che scopre chi è la donna che ha avanti.

Difficilmente le forze possono spiegare la forza catartica di questa scena che, forse per puro caso atmosferico, si conclude anche con la pioggia che viene giù dal cielo sui tre. E' come il supplizio di Tizio, afferra lo stomaco e lo tiene in pugno mentre si ascolta la descrizione del delitto e rende indietro la violenza e il disgusto per l'atto più di quanto avrebbe fatto la rappresentazione stessa dell'avvenimento. Da applausi il trasporto della Petér e la canzone che canta a dare il tocco fuori di testa totale del personaggio. Notevole il carico di domande e dubbi seminati da questo punto in poi. Ad esempio se Antal possa cambiare dopo aver commesso un delitto atroce, se sia più mostruoso il delitto o la vendetta ed infine se si possa perdonare i propri aguzzini.


Mi fermo qua per non svelare altro. Spenderei le ultime parole solo per la Romania, paese bistrattato ovunque soprattutto dai nostri notiziari, eppur capace di attivarsi produttivamente per un'opera del genere. Leggevo tempo fa il commento di un appassionato di cinema del luogo sulla New Wave romena che riteneva sì valida, ma deprimente e poco rappresentativa della società intera girando attorno a temi a sfondo sociale. Mi ha colpito oltre modo, perché effettivamente non deve essere il massimo sapere che l'unica attenzione rivolta all'arte del luogo ha questo aspetto morboso rivolto alla cronaca nera. In realtà il film di Strickland va oltre, sebbene faccia tesoro del paesaggio transilvano per trasmettere l'atmosfera plumbea della vicenda,  e si incentra su problemi morali che trascendono. Ragiona sulla natura ferina dell'uomo che potrebbe venire fuori ovunque e che tende a proliferare là dove ragioni storiche e politiche hanno messo le civiltà e la cultura in ginocchio. Trovo affascinante che questo discorso sia affrontato da un inglese e dalla sua sensibilità dopo anni di esportazione della democrazia in altri paesi e sarebbe bello riflettessero anche i nostri capi di stato sulle conseguenze ultime nella distruzione di società altrui prima di andare a seminare la pace altrove.

Scheda tecnica
Katalin Varga
Anno : 2009
Regia : Peter Strickland
Soggetto & Sceneggiatura: Peter Strickland
Cast :
Hilda Péter - Katalin Varga
Tibor Pálfy - Antal
Melinda Kántor - Etelka Borlan
Roberto Giacomello - Gergely
László Mátray - Zsigmond Varga
Norbert Tankó - Orbán Varga
Attila Kozma - Denim
Enikö Szabó - Zsuzsa


1. Non si interpreti il mio "fortunatamente" come disprezzo per i registi del manifesto, ma debbo purtroppo ammettere che il loro cinema è invecchiato tremendamente ed è stato sconfitto dalla storia. La loro predisposizione allo shock è stata più volte superata a destra dal cinema exploitation che in un modo o nell'altro di shock ne ha generati in numero maggiore elevandolo a merce per lo spettatore pagante. Un approdo Arty sugli stessi lidi non può che far inarcare il sopracciglio ai cinefili e sorge la domanda su cosa debba essere definito cinema e cosa avantgarde. Spero un giorno di approfondire il discorso per spiegare meglio.
2. Sebbene il riferimento sia in questo caso a Van Gogh, in molte altre inquadrature composte vengono in mente al sottoscritto i chiaroscuri di Rembrandt (esempio, altro esempio) e di altri olandesi e\o fiamminghi (esempio). Ian Haydn-Smith che commenta con Strickland il film chiede per l'appunto se c'è ispirazione pittorica nelle scene di interno, ma il regista non sa rispondere con alcun nome. Essendo sorto anche a me il dubbio mi sento di poter dire che quantomeno inconsciamente sia stato influenzato nella scelta delle luci da qualche grande maestro della pittura.
3. Il film è stato premiato per le musiche con un premio speciale alla 59esima edizione del festival del cinema di Berlino.
4. Genericamente si tratta di film in cui uno stupro (rape) iniziale diventa motore della susseguente vendetta (revenge) da parte della protagonista.