mercoledì, gennaio 18, 2012

Luchadoras | La morte sotto la pelle

Tempo di ritornare in vita per questo blog. E lo faccio tornando su una delle mie tipiche ossessioni: la scrittura e la rappresentazione grafica di eventi reali. Della terribile situazione di Ciudad Juárez, megalopoli messicana distesa sulla frontiera tra Stati Uniti e Messico, ne ho già parlato in un altro post dedicato a El Traspatio di Carlos Carrera, quindi rimanderei i lettori a quello per leggere le tristi statistiche, che nel tempo intercorso si saranno certamente aggravate, così come ho parlato dei motivi per cui è urgente parlare di quella storia, o meglio, di quella realtà.

Nello stesso intervento massacravo abbastanza il lavoro fatto in sceneggiatura dall'apprezzatissima Sabina Berman che falliva, nonostante i buoni propositi, nel trovare un registro di narrazione adatto. Tra i problemi vi era quello dell'eccessivo didascalismo. Il film in sé era troppo scritto e buttava via la caratteristica fondamentale che una storia del genere ha implicita.  I fatti sono orribili, un pugno nello stomaco, qualcosa di spiacevole anche solo a sentirli nominare e per questo c'è probabilmente poco da spiegare. Davvero è inutile stare lì a fare il lavoro documentaristico, perché in tale maniera si perde di vista qualsiasi narrazione, quantomeno diventa possibile integrarla oltre un certo limite. E ci volevano cuore e pancia per passare allo spettatore il dovuto, piuttosto che lo sterile didascalismo che macchinosamente diventava storia nel finale, secondo i canoni più classici del poliziesco nordamericano.

Allora molto meglio Luchadoras. Sebbene non sia un film, bensì un fumetto, e cambi quindi la forma di fruizione, il registro di narrazione scelto dall'autrice Peggy Adam risponde perfettamente alle mie richieste. Soprattutto viene fuori l'importanza capitale della scrittura fatta da donne sulle donne che spariva nel sopracitato film. Questo è un punto delicato che fatico spesso a descrivere e mediamente fallisco nel comunicare l'essenza della questione.

Purtroppo l'impressione in questi casi è che la scrittura femminile si allontani sempre troppo dall'autrice. Forse il condizionamento di un mondo profondamente maschilista fa sì che molte preferiscano adattare la loro intelligenza e produrre qualcosa che è una mediazione quel il mondo possa accettare e la realtà sostanziale dell'universo femminile. La distanza tra donna immaginata, forse sognata, e donna reale diventa allora abissale. Per questo, almeno nella mia testa, non funziona la scrittura di alcune artiste, mentre quella di altre è meravigliosa. La distinzione è netta, perché da una parte vi è qualcosa che è possibile decodificare, dall'altra qualcosa di sconosciuto. E l'ignoto di un posto in cui il raziocinio maschile non riesce a trovare alcun appiglio dopo l'iniziale stupore, non può che suscitare attrazione.

Tutto ciò funziona mirabilmente alcune volte. Un esempio lampante è Geek The Girl di Lisa Germano: disco mirabile che parla di donne, di violenza perpetrata su di esse e soprattutto della loro percezione. Senza limite, senza mediazione, senza alcun filtro. Tanto è vero che è un disco che fa paura, che fa correre più di un brivido lungo la schiena e che può far vergognare un ascoltatore maschio della propria esistenza. In tal senso radicale e per me importante nel sostanziare questo discorso che fa di premessa a Peggy Adam.

Come al solito ho preso una strada troppo lunga per arrivare al fondo della questione. Riassumo allora: Luchadoras è un ottimo fumetto edito in Italia da 001 edizioni, scritto da un'autrice francese, ma che parla di Messico in maniera mirabile. Sarei davvero curioso del sapere le leve che l'hanno spinta a scrivere la storia. Forse bisognerebbe chiederglielo per capire, ma fatto sta che la vicenda di Alma, una delle tante, che solo per un caso non è in una delle fosse in cui trovano le sue concittadine, è delineata alla perfezione. La morte che accompagna ogni giorno queste ragazze non è solo nell'iconografia, come può essere il tatuaggio sul braccio di Alma, come può essere il culto della Santa Muerte1 ormai diffuso sempre più nel paese, ma è un motivo di sottofondo, qualcosa che vive sottopelle. E vive tra queste pagine anche l'ostilità degli uomini alla libertà femminile, la loro ferinità ancestrale che esplode nei deserti, là  dove i costrutti di una società pseudo-civile non vogliono arrivare.

Peggy Adam ha capito tutto ciò chissà come, chissà perché, dalla Francia e quindi a distanza ragguardevole da dove sono accaduti i fatti. Col suo tratto scarno ed essenziale tratteggia la bellezza e l'orrore che si concentrano in quella striscia di terra che unisce le due Americhe, così come doveva essere fatto. Altrimenti non poteva essere. Brava.


1. Sul culto della Santa Muerte tornerò certamente. Devo solo capire come muovermi perché c'è davvero troppo da esaminare tra documentari e altre fonti.

lunedì, settembre 12, 2011

Las Malas Intenciones | Festival report

Si è parlato più volte in questo blog di memoria, così come si è accennato al tremendo fardello in termini di storia del Sudamerica. La generazione di moderni cineasti, siano essi cileni come Pablo Larraín, peruviani come Claudia Llosa1 o argentini come Paula Markovitch2, si trova suo malgrado a dover fare pace con quanto accaduto e con le cicatrici della loro sanguinaria storia. Las Malas Intenciones della peruviana Rosario García-Montero non fa certamente eccezione.

La prima cosa su cui viene da riflettere è la nostra rimozione dell'orrore dalla storia. Qualcosa di simile a quanto descritto da Foucault nel suo saggio sulla punizione Sorvegliare e Punire: quella strenua esigenza della società civile, o presunta tale, di lavarsi le mani dal crimine. Se la punizione, per essere accettata è mutata negli anni verso una forma sempre più incorporea passando dalla pena di morte alla tortura, fino alla detenzione infinita o temporanea in una sorta di pudore nel punire l'orrore con altro orrore e nel negare all'individuo la responsabilità  del giudizio, allora la storia del nostro continente è stata epurata del sangue e dello strazio fisico. La storia sudamericana, al contrario, ha spesso un dettaglio orrido,  teatrale e crudele, degno di un Antonin Artaud. Da questo punto di vista è notevole il lavoro fatto dalla García-Montero sulla percezione che una bambina ha della storia e degli eventi di quel 1982 peruviano.  La bimba sfoglia i libri dove trova Tupac Amaru, José Olaya, Simón Bolívar, e vive la sua realtà parallela fatta di allucinazioni e battaglie, convinta che il suo nome, Cayetana de Los Heros, le riservi un destino eroico, mentre attorno si cerca di fare la rivoluzione comunista contro il governo. La confezione scelta dalla regista è ottima: suggella tutto con molto stile e non lesina nemmeno sulla tecnica con un bellissimo piano sequenza tra le nebbie3 eterne che sembrano avvolgere i sogni della protagonista.

L'inadeguatezza degli uomini di fronte all'eroismo è tutto nella sua piccola figura, che si chiede perché si festeggino le sconfitte nel suo paese, e che risponde con incredibile cattiveria a ciò che non accetta come la nascita del fratellino, il divorzio della madre e la malattia della migliore amica. Una cattiveria comica che si risolve in mille commenti pungenti e travolge la sua nazione sconfitta dalla storia. Si ride tantissimo con le riflessioni della piccola Cayetana, interpretata da una meravigliosa bambina che risponde al nome di Fatima Buntinx. Si ride tanto nel riconoscersi nel suo cinismo dettato dall'innocenza e dalla difficile percezione dei troppi eventi che sono in moto nella sua vita, resa ancor più difficile dalla privilegiata posizione di bimba medio-borghese. Si ride tanto e amaramente, forse consci che una rivoluzione non saremo noi a farla di persona, che siamo nella stessa posizione privilegiata e borghese di Cayetana, abbiamo perso la sua innocenza e l'abbiamo sostituita crescendo col senso di colpa dell'essere inermi protagonisti della realtà.


1. Prima o poi si parlerà in questa sede del cinema della conterranea Llosa tipicamente bistrattato dal critico europeo per eccesso di lirismo e senza tener conto di ritmi e linguaggio del cinema sudamericano.
2. El premio della Markovitch condivide con Las Malas Intenciones,  non solo le presenze al Milano Film Festival e al Berlin International Film Festival, ma anche l'avere come protagonista principale una bimba.
3. Ad un certo punto si parla molto efficacemente di un velo che sembra sempre avvolgere il cielo di Lima come a voler puntualizzare questa scelta autoriale ed oserei dire lirica.

Wasted Youth | Festival report

Povera Grecia. A quanto pare la crisi economica che la investe dovrebbe in qualche modo aver infettato il sistema in maniera irreparabile. Non c'è via di scampo e  il cinema che tra le arti figurative è quella che si presta di più alla rappresentazione dei momenti di difficoltà di una nazione non può  che esserne ammalato, incancrenito, finanche morente. D'altra parte da un paese che vanta i natali di Costa-Gavras ci si deve aspettare un nuovo tassello di gran cinema politico. Questo almeno è quel che hanno in testa gran parte dei critici cinematografici. Purtroppo per loro il nervosismo che corre nelle strade non può facilmente imprimersi sulle pellicole che vengono da quelle terre. Il voyeurismo su certi temi è finanche troppo alimentato da altri tipi di lente come la televisione con il  suo brutale tocco documentaristico. Per questo la cosa che suscita più  perplessità  di questo Wasted Youth è proprio il voler soffiare sul fuoco di queste paranoie critiche. Mentre gli altri più celebrati registi di questa non-wave si affrettano a smentire appena possibile qualsiasi influenza della situazione, se non citando en passant la cronica assenza di denari per le produzioni, il duo di registi (Argyris Papadimitropoulos e Jan Vogel) si getta a braccia aperte nel gorgo critico. Così capita che Wasted Youth sia addirittura in apertura all'International Film Festival di Rotterdam, così come venga facilmente messo in programma al Milano Film Festival dove le pellicole a sfondo sociale sono sempre state presenza (fortunatamente) gradita. Quel che manca però è l'ampio respiro che un'opera su tali argomenti dovrebbe avere. Viene il dubbio che la vicenda della crisi economica greca vada prima somatizzata prima di potervi imbastire sopra una storia e il tutto sembra troppo affrettato per quanto buone possano esser le intenzioni degli autori.

Come aveva ampiamente dimostrato Kynodontas del conterraneo Yorgos Lanthimos quella gran fetta di cinema prodotta dal maestro austriaco Haneke non  è passata invano da quelle parti. Purtroppo 71 Fragments of a Chronology of Chance è ancora oggi irripetibile. Forse non lo sarà mai più. La mera ripetizione di meccanismi rappresentativi del maestro è talmente stantia e noiosa nel cinema d'autore moderno che all'ennesima ripetizione del cliché della scena di sesso anti-erotismo, brutta e spregevole anche lo spettatore casuale incomincerà ad inarcare il sopracciglio prima o poi. Oltre tutto anche Wasted Youth lavora su più piani narrativi destinati ad incrociarsi mescolando la storia di un poliziotto in crisi di identità e difficoltà economiche per la sopracitata crisi ellenica con quella di un giovane skater sbandato. Storie ovviamente destinate ad incrociarsi1. Suppongo non ci sia bisogno di raccontarvi il finale. Vero?


1. La vicenda è vagamente ispirata ad un fatto di cronaca dei tumulti in Grecia. Lo cito per dovere visto che tecnicamente dovrebbe essere un valore aggiunto. Purtroppo non sortisce alcun effetto la cosa. Neanche a livello emotivo.

martedì, agosto 02, 2011

Mal día para pescar | Un sogno grande un continente

Ritengo che vi sia una certa e distinguibile matrice psicologica nella scelta dei libri da leggere, della musica da ascoltare e dei film da vedere. Come ci si muovesse su diversi percorsi, ma si continuasse comunque ad andare nella stessa direzione. E' facile per me ritrovare in Mala día para pescar frammenti di altro, soprattutto se vado a spulciare nell'archivio mnemonico delle mie letture.

Le impressioni sono le stesse che si trovano nei libri del realismo magico sudamericano, quindi Borges, Cortázar, Márquez e perché no il buon Soriano che amavano presentare eventi magici o altamente improbabili come realtà normalissime. In fondo è proprio questo il motivo per cui amo il Sudamerica: perché lo guardo con quegli occhi. Suppongo però a giudicare dal film in questione, così come da molte altre pellicole, che non sia solo su questa terra e vedere impresse su pellicola certe immagini e situazioni solamente immaginate mi fa venir voglia di ringraziare caldamente ed affettuosamente il regista (Alvaro Brechner) per avermi fatto questo regalo.

La mia beata ignoranza fa sì che pur avendo rilevato tutte queste cose nel film di Brechner non sapessi che fosse ricavato da un romanzo del più famoso scrittore uruguagio: Juan Carlos Onetti. Il titolo del racconto è Jacob y el otro, a quanto pare tradotto e pubblicato anche in italia nella raccolta Triste come lei, e fa parte del ciclo di finzione ambientata nel paesino immaginario di Santa Maria, vero e proprio cronotopo letterario1, parallelo all'altrettanto celebre contea immaginaria di Yoknapatawpha in cui William Faulkner2 ambientò buona parte dei suoi racconti. Al proposito mi riservo di recuperare un po' di materiale di entrambi e magari tornarci su quando sarò vecchio, esperto, riposato e abbastanza paziente da dedicare centinaia di battute all'argomento.



Quello che però mi assilla, e forse sono in errore in questo, è che il Sud America in sé rappresenta un cronotopo. Un intreccio totale di spazio e tempo e personaggi racchiusi in una sorta di uovo primordiale. Un intero cosmo ordinato con proprie orbite da rispettare dove esistenze abbandonate a sé stesse vagano nei deserti dell'anima prima ancora che in quelli reali. La pampa, come la cordigliera delle Ande, il Mato Grosso, la Zona Austral e la Patagonia, gli altipiani della Bolivia son tutti paesaggi troppo grandi per un singolo uomo, per una singola anima. Si sostanziano come opposto speculare dell'altro estremo delle Americhe, quello industrializzato e potente, quello settentrionale, dove il detto recita the sky's the limit e vuol significare l'assenza di limiti e la volontà di elevarsi oltre quello che già si ha. Invece il cielo incombe sulle persone che si muovono nel sud depredato e impauperito dalla storia. Gli spazi immensi non sono là ad attendere che gli uomini li colmino, ma sono lì a separarli e lasciarli perennemente soli. Triste forse, ma anche fortemente poetico.


Le anime del film fanno parte di questo affresco sudamericano. Se c'è una cosa della quale essere abbastanza sicuri, pur non avendo avuto modo di accostare l'opera di Onetti a quella di Faulkner, è la distanza caratteriale tra i loro personaggi. Al riguardo si trovano molte speculazioni in rete sul rapporto tra i due misteriosi protagonisti, un presunto nobile (Gary Piquer) e un ex campione di culturismo dalla Germania (Jouko Ahola), dall'essere ex criminali nazisti in fuga fino all'essere una coppia omosessuale o entrambe le cose mescolate assieme tanto per essere originali. Onestamente risulta difficile credere che uno scrittore che non chiarisca questi dettagli li avesse ben presenti in mente e il film di Brechner ovviamente non dà analogamente alcun riferimento. Non sappiamo perché Jacob piange in chiesa o perché abbia crisi epilettiche o con chi parli il principe all'altro capo del telefono per organizzargli degli incontri di lotta libera e restituirgli la gloria perduta. L'unica cosa certa è che sono due anime perse che finiranno incidentalmente per incontrarne altre quando l'improvvisato nobile manager cercherà di organizzare un incontro truffa al suo malconcio campione per poter raggranellare un po' di denaro.


Se una costante c'è in queste storie del nuovo cinema sudamericano è la tesa disperazione dettata dalla povertà. Un'altra anima persa è infatti la protagonista femminile interpretata dall'imbronciata, ma egualmente affascinante, Antonella Costa, che disperata e pratica è alla ricerca di denaro per poter avere la minima speranza di crearsela un'esistenza. Tra l'altro la brava attrice è nata Italiana, ma per sua fortuna lavora prevalentemente in Argentina, quindi non in un paese dove il cinema è morto come il nostro. Che si sappia  quindi, perché merita tutta la nostra stima e affetto visto che continua ad alitare un po' di speranza nella nostra moribonda carcassa. Da citare almeno è il suo ruolo in Garage Olimpo, mentre preferirei non ricordare quell'immane sciocchezza de I diari della motocicletta.


Nel finale Brechner si lancia addirittura in una citazione, riedizione che dir si voglia, del gioco di sguardi del triello orchestrato da Sergio Leone ne Il buono, il brutto e il cattivo. Mi sento da aggiungere ben poco sul suo stile asciutto e delizioso e del grande senso dell'inquadratura che incornicia perfettamente la bella fotografia del film. Già nella sequenza iniziale che contestualizza la magia dell'ambientazione è tutto chiaro. Insomma questa coproduzione tra Uruguay e Spagna merita l'attenzione che gli è stata giustamente tributata all'edizione di Cannes in cui è stata programmata. Su questa immagine della Spagna che restituisce in soldi di produzione un po' del bottino coloniale chiuderei lo sproloquio lasciando da parte un discorso sul ruolo della lucha libre nella cultura popolare sudamericana che avrò certamente modo di riprendere per altri film. Sono certo che un giorno riuscirò a trovare un filo logico che unisce le nazioni in cui si è sviluppata (Usa, Giappone e Centroamerica) come spettacolo per le masse assumendo diverse forme di rappresentazioni, ma mantenendo lo stesso schema strutturale.

Scheda tecnica
Mal día para pescar
AKA: Bad day to go fishing
Anno : 2009
Regia : Alvaro Brechner
Soggetto : Juan Carlos Onetti
Sceneggiatura: Alvaro Brechner, Gary Piquer
Cast :
Gary Piquer - Orsini
Jouko Ahola - Jacob van Oppen
Antonella Costa - Adriana
César Troncoso - Heber
Bruno Aldecosea - Grey
Alfonso Tort - Ronco
Jorge Temponi - Jorge
Jenny Goldstein - Jessica
Ignacio Cawen - Fernandez
Luis Lage - Rius
Enrique Vidal - Locutor
Lucía Fernandez - Boletera

1. Il cronotopo letterario è una categorizzazione del romanzo fatta dal teorico della letteratura Michail Bachtin che mutuò il termine dalla teoria della relatività di Einstein. Senza stare a menarla troppo, similmente all'illustre fisico, suggerisce l'inscindibilità di spazio e tempo nell'opera letteraria. Praticamente ogni evento assume un senso solo se inserito in un contesto (spazio + tempo) che è per l'appunto il nostro cronotopo. Dare coerenza e senso ad un'opera letteraria vuol dire quindi isolare il suo cronotopo, poiché la letteratura si appropria del reale e lo canalizza nei differenti generi letterari. Mi fermerei qua. E se le vostre idee fossero confuse, allora sappiate che non siete soli.
2. Incredibile, ma vero. Esiste un saggio italiano dedicato ai due scrittori che evidenzia la passione per Faulkner di Onetti e cerca di analizzare il parallelo e la genesi di Santa Maria da Yoknapatawpha. L'introduzione del saggio orribilmente formattata è disponibile qui. Spero abbiamo venduto bazillioni di copie, ma non nutro molta fiducia nel genere umano come ben sapete.

lunedì, maggio 02, 2011

Abuela Grillo | L'ovvio è quel mostro all'ultimo livello

Mi sento di dover fare un post al riguardo perché inquietato dall'animoso spirito mostrato dai miei connazionali nel reagire alla privatizzazione1 dell'acqua. Evidentemente un concetto così semplice come dover pagare per un bicchiere d'acqua è riuscito a penetrare la spessa coltre di fascinazione del progresso mista a culto dell'imprenditoria selvaggia che attanaglia questo paese. Quindi se fino ad oggi sono riusciti a far privatizzare praticamente tutto delegando sempre di più i poteri del popolo ai privati oggi si dedicano alla rivoluzione tanto cara ai nostri media: quella digitale. Quindi a suon di click, di condivisione selvaggia su Facebook e cinguettii su Twitter stanno facendo ferro e fuoco. Quello che sfugge all'imberbe massa è che un semplice wipe di memorie fisiche potrebbe persino cancellare ogni traccia della loro rivoluzione. Se non è modernità questa.

Ad ogni modo mentre osserviamo gli sciacalli finir di spolpare le carni della carcassa putrescente delle nostre democrazie2, volevo provare una disperata opera di salvataggio dall'isteria puntando l'attenzione su un oggetto bello. Si tratta di un corto prodotto dal governo danese, che fa parte dell'Europa proprio come il nostro paese fino a prova contraria, e parla di Bolivia e di diritto all'acqua pubblica. Non c'è bisogno di sottotitoli, perché non vi sono parole, così come è apprezzabile l'ottimo tratto e stile grafico appropriatamente scelto per la narrazione di questo adattamento di un antico mito Ayoreo (popolo indigeno del Chaco Boreal). E la storia è talmente semplice che non ci vuole chissà quale interpretazione per individuare i capitalisti cattivi negli omoni in giacca. Non sto ad elencare nemmeno tutti quelli che han collaborato alla realizzazione3, lasciando ai poteri di Google e alla spiegazione che trovate all'account vimeo del regista francese il grosso del lavoro. Questo perché non è che mi interessi molto comunicare informazioni ovvie, ma piuttosto far passare il concetto che principi basilari come il dover esser contro la privatizzazione delle risorse e del bene comune siano ben chiari ad un Boliviano qualsiasi, mentre da queste parti sembra quasi che bisogni fare una missione porta per porta. Come il testimone di Geova che ha bussato alla mia porta ieri che voleva spiegarmi qualcosa dell'Apocalisse, vedo lo sciame di poveri derelitti affannarsi per sproloquiare su ciò che non si dovrebbe spiegare. Il difetto non è in trasmissione, ma in ricezione. Bisognerebbe crescere prima individualmente in questi tempi duri e avvelenati. E magari imparare un po' di umiltà da un Boliviano qualsiasi prima di diventare un venditore porta a porta dell'ovvio.



1. So poco della questione e forse il termine è improprio. Mi si perdoni se non ho voglia né tempo di andare a documentarmi, ma sono tipicamente contro qualsiasi corsa allo smembramento degli enti pubblici e quindi andrò a votare nel prossimo referendum abrogativo. Purtroppo, allo stesso tempo, mi annoiano talmente tanto i cantori della rivoluzione e dell'ovvio che il disamore per la politica è la scelta migliore in questi tempi moderni.
2. Non ho inventato io questa fine metafora, ma non ricordo dove l'ho letta.
3. Obbligo di citazione però per Luzmila Carpio ambasciatrice onoraria della Bolivia in Francia e famosissima cantante Quechua, che al contrario del credere comune è una lingua nativa del Sudamerica e non una tenda da campeggio, che dà la voce alla nonna grillo.

lunedì, aprile 25, 2011

L'Angelo della Vendetta | Immondizia dell'anima

"I simply wrote the truth, 
and relished the penetrating sharpness, 
the harsh beauty of reality." 1
Zoë Tamerlis Lund

Nel mio singolare caso di vecchio decrepito trentenne l'adolescenza si è compiuta negli anni '90 e ricordo in maniera definita come Abel Ferrara fosse già un regista feticcio per me. Difficile anche descrivere quanto mi piacquero film come Occhi di Serpente ed anche il vilipeso Blackout per non dovere andare a citare l'ovvio e scontato (cattivo) Tenente interpretato da Harvey Keitel. Film sporchi, reali, crudi dove la violenza entrava in ogni luogo: nei vicoli, nei salotti buoni, nei set cinematografici, finanche nei luoghi sacri. Violenza che andava di pari passo con la droga e con il degrado umano. Film che piacevano persino a quegli amici che nei film cercavano spesso solo l'estremo delle strade e di vite sregolate, capaci di oscillare per l'appunto da una visione pop e luccicante del disagio giovanile del britannico Trainspotting fino alle lerce rappresentazioni fatte con martello e scalpello dell'italico Ragazzi Fuori senza alcuna capacità di discriminazione. A parte il singolare minestrone giovanile che fondamentalmente avviliva anche me è singolare notare come tutto ciò sia sparito dai film americani degli ultimi decenni; per intravedere un cartone rotto in un vicolo bisogna aguzzare la vista e le puntate più glamour di Miami Vice sembrano di un lerciume unico al confronto del moderno Urban Movie nordamericano.



Tutto questo per dire che anche vedere un film certamente minore come L'angelo della vendetta (più noto internazionalmente come Ms. 45) della filmografia di Ferrara mi riconcilia col cinema statunitense che in quei tempi era ancora capace di assestare i suoi colpi. Ad ogni modo la pellicola con tutti i suoi difetti e le sue ingenuità di un regista ancora acerbo è particolarmente significativa. Col tempo maturando avrei anche imparato che non è tutto oro quel che luccica e che molto del merito dei suoi film vanno ai suoi collaboratori classici, anche perché solo i meno svegli si sono lasciati sfuggire il grado di compenetrazione del regista con le sue storie. Insomma non è certo la prima volta che un regista trasmette alle sue storie la sua esperienza personale e riesce per questo a passare l'agognato sotto-testo \ meta-messaggio e fondamentalmente mi interessa poco, però mi avvicina significativamente a quello di cui voglio parlare. E quello di cui voglio invece parlare è l'attrice protagonista Zoë Tamerlis. Qualcosa di più di un semplice corpo attoriale, che già preso separatamente era notevole e riempiva la scena con le sue caratteristiche somatiche accentuate. Labbra, occhi e ossa bene in vista, come se la vita volesse far di tutto per mostrare quanto e come incidesse quel corpo. Così è un esercizio sin troppo facile per Ferrara, quello di puntare la camera su Zoë e farle bucare lo schermo.


In questa maniera il film è qualcosa che vive in sola funzione del mezzo scelto per canalizzarlo ovvero l'attrice. Lo script di Nicholas St. John, collaboratore abituale di Ferrara, non brilla certo per originalità e per scrittura come ammesso dalla stessa interprete ed è forse grazie a questo che fu capace di impossessarsi mirabilmente del personaggio. Zoë non è una diciottenne modella capitata lì per caso per interpretare una donna stuprata che decide di diventare una killer di uomini, ma è già una donna intera con tutte le sue sfaccettature. Una donna più che una sceneggiatrice, che sarebbe tornata anni dopo sull'argomento per scrivere uno dei capolavori di Abel Ferrara, quel Bad Lieteunant (Il cattivo tenente) che inizia proprio con uno dei momenti più violenti nella storia del cinema. Un tremendo atto di violenza verso una suora, così come da suora era vestita Zoë nel finale di Ms. 45. Difficile credere che sia solo una coincidenza.


Ad ogni modo non ho voglia di aggiungere molto su film se non che vi prego di recuperarlo in originale, se dovesse venirvi voglia di vederlo, visto che l'adattamento italiano ha un doppiaggio risibile. C'è già molta gente là fuori che ne parla (nel bene o nel male) e io avevo solo voglia di parlare di lei che ci ha lasciato sin troppo presto. Talmente presto da non esser riuscita nemmeno ad alimentare il suo mito finendo tra le vittime sacrificali meno conosciute dello spettacolo. Mette anche un po' di tristezza buttare un occhio al sito contenitore messo su da suo marito dopo la sua morte in quel di Parigi per arresto cardiaco dovuto all'abuso di droghe. E in fondo è anche lei quella che descrive il film meglio di tutti nel già citato saggio the ship with eight sails and with fifty black cannon2 che accosta la protagonista Thana3 ad altre forti figure femminili come Giovanna D'arco, Ulrike Meinhof e Seeräuber Jenny e fa un po' di ordine su Ms. 45 e Bad Lieteunant, lasciando ben poco spazio agli sproloqui di noi esegeti circa l'eventuale femminismo dell'opera.
"No, Ms. 45 non parla di liberazione femminile, più di quanto parli di liberazione dei muti, oppure di liberazione di un'operaia di sartoria (il personaggio è una stiratrice), oppure la vostra liberazione, oppure la mia personale [..] E quindi, Ms. 45 presenta una umile, sebbene ben architettata metafora per la ribellione di chiunque venga oppresso, qualsiasi sesso esso sia. Ma la pistola è messa nella mani di una donna. Una donna si fa carico di quel messaggio universale, e così è tutto molto più potente. Ci fa venire i brividi. Uomini e donne. Differenti timbri e temperature alla base di questi brividi, ma comunque brividi che ci avvinghiano. "

Scheda tecnica
Ms. 45
Anno : 1981
Regia : Abel Ferrara
Soggetto e Sceneggiatura: Nicholas St. John
Cast :
Zoë Tamerlis Lund - Thana
Albert Sinkys - Albert
Darlene Stuto - Laurie
Helen McGara - Carol
Nike Zachmanoglou - Pamela
Abel Ferrara - Primo stupratore
Peter Yellen - Topo d'appartamento
Editta Sherman - Mrs. Nasone
S. Edward Singer - Fotografo
Stanley Timms - Pappone
Faith Peters - Prostituta
Lawrence Zavaglia - Arabo
Alex Jachno - Chauffeur
Jack Thibeau - Uomo nel bar
1. Estratto dal suo trattato del '93, ma edito solo nel 2001 postumo su un numero di New York Waste. La mia traduzione che gli avrebbe fatto perdere un po' di efficacia, ma allego per comodità di chi non è pratico di inglese, sarebbe stata: "Ho semplicemente scritto la verità, e assaporato la precisione della penetrazione, la cruda bellezza della realtà."
2. Il titolo è per l'appunto una citazione del coro inglese della canzone di Seeräuber Jenny presente nella immaginifica Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Ne approfitto per indirizzarvi alla bella versione italiana di Milva e Strehler.
3. Ovvio il riferimento a Thanatos nel nome scelto dallo sceneggiatore.

A Nyomozó | L'anaffettività di un detective

Nel fare il patologo si diventa probabilmente indifferenti alla vita. Dissezionare cadaveri, capire perché sono morti e certe volte rendersi conto che si son battuti per entrare nei Darwin Awards per poi dar loro sembianze presentabili per le cerimonie funebri non può che render cinici alla lunga. Deve essere questo l'assunto da cui è partito Attila Gigor nello scrivere il suo film che ruota tutto attorno all'anomalo Tibor Malkáv interpretato da un ottimo Zsolt Anger. Inizia infatti proprio così con l'assurda morte di una donna per uno stupido incidente e subito facciamo la conoscenza di quest'uomo dall'unica espressione.

Può sembrare improponibile, ma la forza del personaggio è proprio nella caratterizzazione che ne fa il regista, ma soprattutto l'attore, esclusivamente tramite gli eventi che gli accadono. Persino il sopracciglio che si muove nei momenti di maggior nervosismo o che dovrebbero essere tali è parte della sua totale distanza dalla restante parte del pianeta. Eppure qualcosa dentro Tibor deve esserci, se è vero che lo vediamo protrarre la mano per toccare quella della madre gravemente malata oppure prometterle che troverà i denari per poter essere operata in Svezia oppure accompagnare una donna semisconosciuta al cinema nel tentativo (non saprei definirlo altrimenti) di relazionarsi con un essere umano. In qualche modo la caratterizzazione del buon Anger mi ricorda quella di un altro suo personaggio con grandissime difficoltà relazioni visto di recente nel simpatico corto Szalontüdö (Tripe & Onions) che un po' fa sorgere il dubbio che il bravo attore sia prigioniero della sua fisicità.


Le parole del regista Attila Gigor, al secolo Attila Galambos, sembrano confermare che il film sia soprattutto volto all'esplorazione del motu proprio del protagonista:
"[..] A lui piace vivere tra i morti, perché la loro storia si è conclusa, sono cerchi chiusi.  Questa è la ragione per cui si rinchiude nella sala delle autopsie: per chiudere sé stesso lontano dal mondo dei vivi. Questa storia è incentrata su di lui che cerca la via di ritorno verso il mondo dei vivi, poiché ne vale la pena."
Questa osservazione reperibile assieme altre interviste qua, mi aiuta a dire che sarebbe un profondo errore giudicare frettolosamente A Nyomozó come un film sul confine tra bene e male e su quello che sia disposto a fare un uomo per poter ottenere quel di cui ha bisogno. Tibor si ritrova infatti coinvolto in qualcosa più grande di sé quando viene abbordato da un sinistro straniero con un occhio sfregiato. Ha bisogno di soldi Tibor e lo straniero è disposto a darceli purché commetta un omicidio che avrà risvolti inaspettatti. Il titolo, tradotto per il mercato anglofono con The Investigator, è sintomatico della svolta improvvisa del film con una incredibile sequela e catena di eventi che lo trascineranno in una investigazione ai limiti del grottesco.


Sono certamente altri i lidi dove cercare questo sotto testo del bene e del male che sembra ormai anche sciocchino da trattare in un film moderno. Per questo se c'è da apprezzare qualcosa  è proprio questo seguire l'evoluzione del personaggio che fa della sua anaffettività la sua forza. Sembra voler indossare la dura scorza di un Marlowe, ma a differenza del grande investigatore creato da Raymond Chandler rimane un impacciato ed un asociale e probabilmente non matura neanche nel finale. Non so quanto volontario fosse questo aspetto, ma è certo che la scena finale in cui trucca e pettina Judit Rezes analogamente a quanto faceva ad inizio film sui clienti del suo obitorio, mostra una sorta di adattamento del suo modo di essere al mondo dei vivi, piuttosto che una evoluzione interiore, come se ne fosse uscito solo brevemente perché costretto a salvarsi dagli eventi, per poi ritornarvi alla prima occasione.


Probabilmente non era questa l'intenzione del regista, ma è quel che passa. Purtroppo la realizzazione un po' asettica con qualche voluto picco di grottesco come le allucinazioni1 di cui è disseminato il film non aiutano assai, riducendo di gran lunga il potenziale del film e virando il discorso su altri binari, sin troppo esplorati dalla lunga tradizione del grottesco dell'est. Tutto ciò consegna un film interessante, che arricchisce l'impressione che il cinema ungherese sia in buona forma da anni e pochi ne parlino, ma non vorrei mai far passare un discreto film di esordio per un ottimo film. I premi ricevuti in patria (Miglior film di genere, Miglior attore, Miglior sceneggiatura e Miglior realizzazione) nel 2008 da questa coproduzione ungherese, svedese ed irlandese suppongo che debbano però rappresentare un buon punto d'inizio per un regista all'esordio. Prossimamente mi riprometto di tornare sul cinema ungherese, ma soprattutto sul registro del grottesco e dell'insolito come substrato su cui edificare le migliori architetture di certo cinema dell'est.

Scheda tecnica
A Nyomozó
Anno : 2008
Regia : Attila Gigor
Soggetto e Sceneggiatura: Attila Gigor
Cast :
Zsolt Anger - Tibor Malkáv
Judit Rezes - Edit
Sándor Terhes - Ferenc Szirmai
Ildikó Tóth - Mrs. Szirmai
András Márton Baló - Mehtar ben Jaron
Péter Blaskó - Artúr Kertész
Csaba Czene - Köpcös
Kata Farkas - Business woman
Tamás Fodor - Antiquarian Bookseller
Zsuzsa Járó - Segretaria
István Juhász - Schwartz, inspector
Ilona Kassai - Malkáv's mother
Éva Kerekes - Ágnes Noszfer
Réka Kiss - Girl on bicycle
Judit Lax - Infermiera
Helga Mandel - Notary
Júlia Nagy - Evike's mother
Ferenc Pusztai - József Szemben

1. Tibor sogna ad occhi aperti la clinica svedese nella quale ricoverare la mamma ed ha come guida in questi sogni un granchio parlante.


Altra curiosità è rappresentata dalla fine citazione de L'esorcista di William Friedkin, ma a parte mostrare del buon gusto cinematografico da parte del giovane regista poco aggiunge alla qualità del film.